truduROMA – Mario Trudu, è un pastore sardo condannato all’ergastolo, marchiato a fuoco da una “fine pena mai”. E’ in carcere dal 1979. Da 10 anni, si trova nel penitenziario di Spoleto. Mario Trudu, è un anziano avvinghiato ad una lenta disperazione, che tempo fa, in una resa assoluta, lo ha spinto a chiedere di essere ucciso. Una morte precisa con un messaggio provocatorio: fucilato in piazza pubblicamente “per dare soddisfazione-come scrive in una lunga lettera- a tutti coloro che i delinquenti vogliono vederli morti, anche dopo 34 anni di carcere”. Richiesta, ovviamente respinta dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia, che ha dichiarato inammissibile l’istanza “poiché la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla Costituzione”. La vicenda dell’uomo in questione, rappresenta uno dei tanti “tasselli grigi” di un sistema in piena emergenza, che si incastra da solo tra disfunzioni e mancanze. E’ stata segnalata dal blog “L’altra riva” (http://www.laltrariva.net), curato dalla giornalista Francesca De Carolis.
Tutto ha inizio da una richiesta dell’ergastolano: scontare il resto della pena, o almeno una parte, in Sardegna, terra d’origine. Un’esigenza, dettata da condizioni di salute precarie e dalle difficoltà dei suoi familiari, sia economiche che logistiche, che spesso, gli hanno impedito di poter usufruire dei colloqui di cui poteva beneficiare. Il Ministero, gli concede però un’anomala possibilità, permettendogli sì lo spostamento, ma precisando “la subordinazione della concessione di un avvicinamento alla copertura da parte del detenuto del pagamento delle spese di viaggio, scorta e annessi compresi”. Motivazione addotta: mancanza di fondi. Una cifra, quella di cui dovrebbe farsi carico, che presumibilmente si aggira intorno ai 10.000 euro. Soldi che non ha.
Abbiamo chiesto il parere di un esperto. «Quanto mai singolare- afferma Pasquale Troncone, docente di Diritto Penitenziario presso la Federico II di Napoli- la condizione posta dall’Amministrazione penitenziaria. Singolare, ma in linea con i tempi, con una crisi economica che mortifica il bilancio del Ministero della Giustizia e non riconosce l’esercizio di diritti fondamentali. La decisione ministeriale contrasta, a mio avviso, con il principio ribadito dalla legge -DPR n. 230/2000 art. 42- e in ultimo dalla “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti”, del 5 dicembre 2012, secondo cui la pena va scontata nel luogo di residenza e dove ha residenza la famiglia del detenuto condannato, ma soprattutto si pone in evidente contrapposizione con i principi fondamentali sanciti all’art. 27 della nostra Carta Costituzionale. Se è pur vero- continua il Giurista- che si tratta di un condannato all’ergastolo, è del pari vero che siamo prossimi all’esame del disegno di legge di abolizione dell’ergastolo ostativo, e comunque più di ogni altra norma o disposizione ministeriale, conta il principio di rieducazione accompagnato dal senso di umanità che deve informare la modalità di esecuzione della pena. Fuori da questo perimetro, qualunque decisione è destinata a collidere con i superiori principi costituzionali. Nel caso in esame, sebbene si tratti di questione esclusivamente economica, le ragioni di bilancio non possono sovrastare e conculcare un diritto sancito dai principi e dalle stesse norme. La concessione del trasferimento vuol dire abilitare all’esercizio di un suo diritto il condannato, ma l’imposizione di una condizione impossibile da soddisfare, perché non secundum legem, viola un diritto fondamentale della persona, che benché detenuta non perde la sua qualità e il suo status di cittadino».

di Carmela Cassese

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