Don Federico Battaglia a 41 anni dirige la Pastorale giovanile della Diocesi di Napoli. Soprannominato “l’angelo dei giovani e dei migranti” proviene da un intenso lavoro di parroco in provincia di Napoli, alle pendici del Vesuvio. Con l’arrivo di don Mimmo Battaglia, Vescovo di Napoli, don Federico viene chiamato a Largo Donnaregina nella segreteria dell’Arcivescovo con cui non c’ è alcun tipo di parentela, ma solo un semplice caso di omonimia.

Lei è un giovane in un’Istituzione considerata da molti “vecchia” e non al passo coi tempi. Come può la Chiesa tornare ad essere attraente?

«Grazie per il giovane, ma a 41 anni si esce fuori categoria, almeno per le statistiche. Provo a reggere il passo, ma lo faccio come adulto che ha a cuore la passione educativa. La Chiesa diventa attraente quando promuove il bene in ogni sua forma, non per accalappiare persone da recludere in un tempio ma per liberare energie positive che rendano il mondo più fraterno. La Chiesa diventa attrattiva quando non ha bisogno di fare beneficenza con la telecamera in mano, ma quando esprime una presenza di carità che emancipa le persone che vivono nel disagio. La Chiesa diventa attrattiva promuovendo e proteggendo quanti sono in stato di migrazione e non creando confini che diventano recinti insormontabili. Gesù è stato un bambino migrante, ha svolto il suo servizio alla comunità togliendo il male dalla vita delle persone ed è risorto per renderci liberi per amare».

Grazie al suo lavoro è arrivata la nomina a Direttore della Pastorale Giovanile della Diocesi di Napoli. Dal suo osservatorio privilegiato, come descrive i giovani di oggi e in quali valori si riconoscono?

«La mia generazione da giovane percepiva il futuro come un’enorme promessa: boom delle telecomunicazioni, il titolo di studio collegato al lavoro, un mondo che lavorava per la coesione tra le nazioni. Oggi il futuro è percepito da giovane come una minaccia: nulla è più garantito, il futuro è spesso visto fuori Napoli, ci si percepisce solari e ambiziosi, ma contestualmente ci si sente affettivamente fragili. E la fragilità viene vissuta dai giovani come una ricchezza, dagli adulti viene osservata come un limite. Il potenziale più bello arriva dai migranti di seconda generazione, i nuovi europei che hanno imparato a vivere da napoletani e hanno una gran voglia di riscatto sociale. Sono tutti nati a Napoli, anche se figli di cinesi, srilankesi, nigeriani… una presenza colorata e vivace che in prospettiva può dare un grande contributo alla nostra identità partenopea».

In pochi anni è riuscito a dar vita ad una rete nazionale di associazioni di promozione sociale puntando sul volontariato intergenerazionale. Ci racconta questa esperienza?

«Quando si parla di reti associative il merito non è mai di uno. Ad avere l’occhio lungo è stato don Pasquale Langella, che ha capito prima degli altri che la promozione sociale in forma associativa era un grande strumento di protagonismo del laicato, di liberazione amministrativa per la Chiesa, di realizzazione di patti educativi con le agenzie territoriali. La presenza transgenerazionale di ragazzi, giovani, adulti e anziani è il tesoro più prezioso che l’associazione mette in disponibilità dei ragazzi dei nostri oratori. Sicuramente c’è una responsabilità condivisa, per cui è anche più bello portare un peso perché con un NOI grande il peso diventa leggero. Lì dove c’è un disagio economico-sociale più grande forse il peso è maggiore, ma l’occhio della tenerezza e la generosità della restituzione ripagano di ogni fatica».

Alla responsabilità non si sfugge perché non è una cosa che si può assumere a discrezione. Come vivono i giovani il peso della responsabilità?

«Dopo il Covid ci siamo accorti che questo è un punto sensibile sul quale lavorare. Mentre prima, alla proposta di volontariato – soprattutto ai più poveri – c’era una disponibilità immediata anche da parte di chi non è credente, oggi si fa più fatica a trovare questa disponibilità. Il giovane stima questo mondo ma non vuole accogliere la responsabilità di un tempo da dedicare agli altri. Lo si può vedere dalla decrescita della domanda di servizio civile, che rappresenta un ottimo parametro di una realtà più ampia. Chi invece accoglie la responsabilità, lo fa con un entusiasmo più grande rispetto a quando questo dato era scontato».

Quali differenze, o eventuali punti di contatto, ci sono con le vecchie generazioni, quelle che in qualche modo hanno orientato il nostro presente?

«Giovani” da sempre è uguale a “entusiasmo”. La bellezza di questo tempo rimane intatta con le sue contraddizioni, i suoi linguaggi mutevoli, il suo desiderio di vita piena, mai la disponibilità a contrattare sugli ideali. Oggi un adolescente sceglie BeReal come social di riferimento perché rispetto alla generazione di Instagram non vuole più fotoritoccarsi, non vuole filtri, e vive una dimensione di crossmedialità in cui non ci sono ancora figure educative formate. Un boomer vive il proprio spazio di socialità su Facebook e quando si approccia a TikTok lo fa spesso in maniera goffa. Se uno spulcia un po’ i social la differenza si nota subito. In realtà, pur avendo acquisito competenze nella fruizione dei prodotti di comunicazione, io riscontro una difficoltà nella produzione creativa di contenuti e nella capacità critica di lettura».

Noi adulti come possiamo accompagnare i giovani nel loro percorso di crescita? «Una ricetta non c’è. Stare accanto ai giovani è un lavoro artigianale, si impara camminando con loro. Non davanti per segnare il passo, andranno altrove. Non dietro per custodirli, non prenderanno mai il largo. Ma accanto, gomito a gomito, dando loro la possibilità di provarsi in un ambiente custodito. Prove di vita adulta da sostenere verso una vita piena. Ecco! È una bella sfida e come tale: o ci si sta dentro accogliendola, o si generano fondamentalismi non generativi. Quando ti appassioni ai giovani ti viene una gran voglia di renderli felici, ma mai sostituirsi alla costruzione della loro felicità. Si è felici davvero se si è artefici di una condizione bella, non sempre perfetta, in cui ci si sente protagonista».

di Giovanna De Rosa

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