La transizione ecologica si avvia ad imporsi come l’unica strada percorribile, per far fronte alla sempre crescente domanda energetica e, al contempo, per dare una risposta concreta alla crisi climatica, causata proprio dall’utilizzo di quei combustibili fossili che alimentano la nostra economia, fin dalla rivoluzione industriale. La crescente domanda energetica degli ultimi decenni è da attribuirsi non solo alla crescita produttiva delle potenze economiche occidentali, ma, rispetto al passato, anche allo sviluppo industriale di quei Paesi, come India, Brasile e Cina, che grazie a standard ambientali, oltre che a condizioni di lavoro, inique rispetto ai Paesi sviluppati, godono di una crescita sostenuta, ma al contempo insostenibile per l’ambiente. Paesi che vedono crescere le capacità di spesa di una classe media sempre più numerosa, desiderosa di raggiungere le stesse condizioni di benessere e di consumo di un loro pari Europeo o Statunitense. La transizione ecologica in se, però, non può prescindere dal mettere in conto nella pianificazione di una strategia condivisa, oltre alle questioni energetiche, quelle che sono le problematiche ambientali legate al consumo, al benessere. Le possibilità di consumo che la crescita fornisce sembrano diventate imprescindibili per la vita, a Ovest come ad Est. Come ha voluto sottolineare anche il Primo Ministro Indiano Modi, durante i lavori della Cop26, non sarebbe ne democratico ne giusto negare queste possibilità alle popolazioni di Paesi che ancora non ne godono a pieno e che stanno lavorando duramente per ottenerle. Un miliardo e mezzo di persone, solo nel continente asiatico, ancora non ha accesso all’elettricità; un miliardo e mezzo di persone che aspirano ad uno stile di vita occidentale, riconosciuto come “migliore condizione umana” in tutto il mondo. Un miliardo e mezzo di persone che però non potranno e non dovranno per nessuna ragione arrivare ad avere i nostri standard, pena il collasso dell’ecosistema, a meno che questa crescita non venga sostenuta da fonti energetiche rinnovabili e non inquinanti. La sfida dei nostri tempi parte da questa consapevolezza, una verità che allontana la speranza di una strategia condivisa per la de-carbonizzazione. Saremo in grado di far coesistere crescita e rispetto per l’ambiente? Secondo alcuni studiosi come Serge Latouche, no. Siamo arrivati ad un punto della storia umana in cui, per inevitabile necessità, si deve iniziare a parlare di “decrescita felice”, in quanto la crescita, come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, felice o infelice che sia, non è più contemplabile, perché chiaramente insostenibile per la nostra stessa sopravvivenza. Parlare di decrescita felice vuol dire proporre una riduzione controllata e volontaria della produzione economica, per ristabilire l’equilibrio biologico tra uomo e natura. Questa teoria socio-economica nasce dalla premessa che la crescita economica non sia direttamente proporzionale allo sviluppo del benessere (a maggior ragione se consideriamo gli effetti sul Pianeta e sulla nostra salute). La decrescita felice non prevede la messa al bando dell’innovazione (al contrario), ne la denigrazione della produzione, ma parte dal presupposto di un cambiamento della scala valoriale, in rapporto ai nostri desideri e ai consumi. Decrescita felice vuol dire maggiore attenzione agli sprechi, riducendo la produzione di merci non indispensabili e ottimizzando le produzioni; vuol dire soprattutto creare un’economia più inclusiva, più sostenibile e più equa, a scapito della massimizzazione cieca dei profitti. Vorrebbe dire, soprattutto, concentrare le risorse e il progresso tecnologico per migliorare le condizioni di vita delle persone. Secondo molti, questa sarebbe l’unica via realmente percorribile per mettere un freno ai cambiamenti climatici in atto, altri, e forse anche gli stessi sostenitori, pensano che sia un progetto irrealizzabile ed utopico per tutti quei Paesi occidentali e occidentalizzati, caratterizzati da una società consumistica di stampo capitalistico. “Non possiamo permettere un ulteriore degrado delle condizioni del clima, delle acque, del suolo. Le crisi sanitarie globali e gli eventi climatici estremi diventano sempre più frequenti” aveva detto, quest’estate, il Ministro della transizione ecologica Cingolani, che poi aggiunge “…credo che nessuno sia così folle da pensare che la risposta sia la decrescita. Non si può chiedere alle persone di perdere il lavoro perché tutto deve essere verde. La sostenibilità è sempre un compromesso, non può essere un valore assoluto. Dunque deve mediare tra istanze diverse”. Definita dal Ministro come un possibile “bagno di sangue”, la teoria della decrescita non ha trovato al momento alcuna via istituzionale, forse perché troppo cari sono per noi i criteri della fase di crescita, d’altronde sono anche gli unici che l’uomo, nella sua storia, abbia mai contemplato. Criteri, che già difficilmente riusciremmo ad abbandonare nell’eco-friendly Occidente, sembrano insostituibili oggi in Oriente e nei Paesi in via di sviluppo. Di tutt’altro avviso è l’European Environmental Agency (EEA), una rete indipendente d’informazione e di osservazione che coopera con 32 Paesi e con le Istituzioni dell’Unione Europea. Secondo l’EEA è necessario “ripensare cosa si intende per crescita e progresso” e spiega che sono solo tre i percorsi possibili: il modello dell’economista inglese Kate Raworth, detto dell’ “Economia della ciambella”, che contempla un doppio vincolo sociale e ambientale; il modello della “Post-crescita”, dove il benessere delle persone non è correlato dall’aumento della crescita economica, e la “Decrescita”, che mira ad una diminuzione della domanda e dei consumi finali. Certo, è facilmente intuibile che non rientra nella nostra concezione l’abbinamento dei termini decrescita e felicità. Meno ancora decrescita e benessere. Come non rientra nella nostra abitudine di pensiero la visione prospettica d’insieme delle conseguenze del nostro operato individuale e delle sue responsabilità per la collettività e per l’ambiente. In conclusione, anche secondo l’European Environmental Agency non può esserci transizione ecologica se non “cambiando i consumi e le pratiche sociali”.

di Valerio Orfeo

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