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ROMA – «Il viaggio è molto lungo, per capire quello che è successo devi sapere perché sono partiti». È Syoum a parlare, uno dei tanti testimoni che popolano “La Frontiera”, libro inchiesta di Alessandro Leogrande pubblicato pochi mesi fa da Feltrinelli, e già ritenuto un tassello fondamentale per meglio comprendere la storia delle migrazioni verso l’Europa.
LE TRAGEDIE – Dopo “Uomini e caporali” e “Il naufragio”, Leogrande (vicedirettore del mensile “Lo Straniero” di Goffredo Fofi) torna in libreria con un esempio di giornalismo narrativo denso, fatto di storie e voci personalmente venute a contatto con l’autore. Sono voci che mettono a nudo se stesse, svelando il dramma delle ondate migratorie che negli ultimi anni sono sfociate in tragedie come il grande naufragio di Lampedusa del 3 Ottobre 2013. Syoum, eritreo vissuto in Italia sin da quando era bambino, ne racconta i dettagli come se quel viaggio l’avesse affrontato per davvero, come se non fosse cresciuto nella città siciliana dove alcuni sopravvissuti vengono trasferiti perché è impossibile assistere tutti a Lampedusa. Essendo l’unico in ospedale a parlare l’italiano e il tigrino, Syoum si propone come mediatore, riuscendo a mettere in contatto, almeno sul piano linguistico, due realtà parallele: il «naufragio e il dopo-naufragio», che scorrono per incontrarsi soltanto sull’asse morte – vita. È qui che viene a conoscenza di cosa è accaduto in mare, e ancora prima, al momento dell’imbarco in Libia, e in Sudan, e in Eritrea nel giorno della partenza. Una via crucis fatta di tappe, quella dei migranti, e ad ogni step la necessità di raccogliere soldi per proseguire il cammino e forse, nel peggiore dei casi, annegare nelle acque del Mediterraneo.
I TESTIMONI – Molti dei testimoni intervistati da Leogrande scelgono di non rivelare il proprio nome, temono «la presenza in tutta Europa di agenti dei servizi eritrei». Non hanno paura per se stessi, ma per le famiglie rimaste ad Asmara o Massaua, delle ripercussioni che potrebbe condannarle a un centro di detenzione in qualsiasi momento. Fra questi, l’esule politico Gabriel Tzeggai è uno dei pochi che si arrischia a rendere pubblica la sua identità. Leogrande ha la possibilità di conoscerlo tramite l’associazione “Archivio delle memorie migranti”, e di incontrarlo per «parlare della sua vita nel Fronte». Nemmeno R. vuole rivelare il proprio nome, ma spiega con dovizia di particolari le pratiche di tortura subite nelle prigioni eritree: «me le ha raccontate con uno strano sorriso all’angolo della bocca, quasi provasse imbarazzo per tutto quello che erano stati capaci di infliggergli». R. è un evangelico appartenente a una chiesa minore, non riconosciuta dal governo eritreo, e per questo perseguitata dal regime. Il suo sbarco in Europa risale all’agosto del 2013, due mesi prima del grande naufragio lampedusano. In Eritrea è stato arrestato direttamente in chiesa, insieme a un altro centinaio di persone, e trascinato in un posto «tremendamente caldo» conosciuto come Track B. Al suo interno, i corpi, rinchiusi in una cella situata dieci metri sottoterra, non hanno nessuna possibilità di frescura, né di intravedere la luce del sole. Gli unici compagni d’inferno sono un gabinetto, i fili elettrici e l’acqua bollente con cui seviziare la vittima di turno. Vittima che non ha diritto a un regolare processo, né a conoscere il motivo della sua prigionia o se, e quando, ne uscirà vivo.
VIAGGIO NEL VIAGGIO – Ognuna di queste voci, direttamente o indirettamente, ha sfidato il viaggio per attraversare “la frontiera”, quella che Leogrande definisce «il termometro del mondo», la linea d’ombra raggiungibile solo «in condizioni inumane, attraverso i confini che si frappongono lungo il suo sentiero» per sfuggire a un destino che «rasenta il grado zero della violenza». Lo stessa violenza raccontata da Don Mussie Zerai, prete eritreo e figura di riferimento per tutti quelli che dal Corno d’Africa provano a raggiungere l’Italia sui barconi. Il cui numero di telefono è scritto sulle mura delle carceri libiche, nei capannoni dei trafficanti e in tanti altri posti impensabili, nelle lingue più svariate. Quella di Don Mussie sembra una fiaba – scrive l’autore – e invece è una storia vera: la vicenda di un uomo inviso ai neofascisti italiani, agli agenti del regime eritreo, a CasaPaound che lo considera un «trafficante protetto dal Vaticano» e per questo costretto a lasciare Roma e a rifugiarsi in Svizzera. La verità è un’altra, però: grazie a Don Mussie, da oltre dieci anni, miglia di migranti sono stati tratti in salvo dai barconi alla deriva, perché qualcuno di essi ne aveva con sé il numero di telefono.  È un viaggio nel viaggio quello di Alessandro Leogrande, fatto nella vita di chi è stato preda dei trafficanti, degli abusi, dei baby scafisti, dell’attesa durata anni prima di calcare la terra promessa, la libertà agognata. È un excursus costruito abilmente, che si avvale di riferimenti storici, fonti documentate, di un’intertestualità che spinge il testo a dialogare con altri testi come “Roma negata” di Igiaba Scego e “The Lasting Struggle for freedom in Eritrea” di Tronvoll, per citarne solo alcuni. È un esodo fatto di leggi, le ventotto del capitolo nono, tra cui: avere fortuna; avere coraggio; diventare saggiamente egoisti per aiutare se stessi, per darsi una chance di sopravvivenza in più. E, soprattutto, avere determinazione e volontà, non guardarsi indietro perché «i viaggi continueranno, non possono che continuare se le cose non cambiano».
 

di Francesca Coppola

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