Si celebra oggi, 25 maggio, la Giornata mondiale dell’Africa, per ricordare il cinquantanovesimo anniversario della prima istituzione panafricana post-colonialismo e post-indipendenza, l’Organizzazione dell’Unità Africana (OAU), oggi Unione Africana (UA). L’organismo, composto da tutti i 55 Stati del continente africano, fu fondato il 25 maggio del 1963 ad Addis Abeba, con l’intento di manifestare al mondo la visione panafricana, per un’Africa indipendente ed unita. L’Africa tutta, da allora, si è trovata davanti a molteplici sfide, che ne hanno minato, su più fronti, la crescita e la stabilità, politica, sociale ed economica. Conflitti etnici, regimi dittatoriali, emigrazioni, epidemie e carestie hanno contraddistinto la storia moderna del continente. Oggi, a parte una più diffusa, anche se spesso precaria, stabilità politica e una crescita economica a macchia d’olio (in molti casi dovuta all’apporto di capitali stranieri, per quello che si può definire “neocolonialismo africano”), le prove da affrontare per l’Africa sono ancor più impegnative e temibili. Sfide, queste, aggravate da un fenomeno globale che vede proprio l’Africa esposta in prima linea, sotto il fuoco incrociato di un nemico invisibile e implacabile come il cambiamento climatico. In Africa, già da anni, si combatte una guerra quotidiana per difendersi dagli eventi climatici estremi, di cui proprio l’Africa è tra i minori responsabili (meno del 3% di tutte le emissioni). Siccità, inondazioni, cicloni e piaghe bibliche come le cavallette, che, dopo il Corno d’Africa, oggi devastano le colture del nord del Madagascar (precipitazioni eccezionali in periodi dell’anno generalmente asciutti hanno generato le condizioni favorevoli alla proliferazione e alla migrazione di questi insetti), sono un perfetto catalizzatore per crisi umanitarie preesistenti e storiche criticità mai sanate. A causa del cambiamento climatico, dal 1961, la produttività agricola si è ridotta del 34%, più che in qualsiasi altra parte del mondo. La crescente variabilità delle precipitazioni comporta periodi anche lunghi di siccità, che provocano crisi umanitarie senza precedenti, come è accaduto negli ultimi 5 anni nel sud del Madagascar e sta accadendo oggi in Kenya, Somalia, Tanzania, Gibuti, Uganda e in Etiopia, dove l’insufficienza alimentare è aumentata dell’80% in soli 3 mesi. In conseguenza di eventi climatici catastrofici, che portano ad una diminuzione delle risorse disponibili, vanno generandosi sempre nuovi conflitti tra popoli, alla ricerca di nuovi pascoli e terre fertili per l’agricoltura, o più semplicemente di acqua. Il lago Ciad ne è un’esempio. Condiviso da Niger, Ciad, Camerun e Nigeria è da sempre una straordinaria fonte di sussistenza. La sua superficie si è ridotta significativamente sin dagli anni Sessanta, arrivando ad una diminuzione di oltre il 90%, passando da una media durante la stagione delle piogge di 20000 km2, ai circa 2000 attuali. Il ritiro delle acque, con un loro spostamento verso Ciad e Camerun, ha inasprito le tensioni tra le popolazioni locali. Crisi che si sovrappongono, si sommano e ne moltiplicano gli effetti. Secondo l’Idmc, l’Internal displacement monitoring centre, nel 2019 erano circa 3,5 milioni gli sfollati interni (Idp) nell’Africa subsahariana a causa di crisi ambientali, una cifra che potrebbe quintuplicare entro il 2050. Complessivamente, in soli 10 anni, tra il 2008 e il 2018, gli africani costretti a spostarsi per disastri naturali sono stati oltre 21 milioni. Entro il 2050, si prevedono 216 milioni di migranti climatici, di cui 86 milioni provenienti dall’Africa, principalmente dalla regione sub-sahariana, il 4,2% della popolazione totale. Il fenomeno migratorio non risparmierà nemmeno l’Africa settentrionale, dove l’aumento della scarsità d’acqua nel nord-est della Tunisia, nel Marocco occidentale e meridionale, e nel nord-ovest dell’Algeria, provocherà lo spostamento forzato di 19 milioni di persone, il 9% della popolazione. La responsabilità della risoluzione di queste problematiche non può essere attribuita al solo continente africano, lo sforzo per ridurre gli effetti del cambiamento climatico è inevitabilmente comune. Secondo l’ultimo Rapporto Growndshell della Banca mondiale, se si procedesse alla riduzione dei gas serra e se si cominciasse a lavorare a piani di sviluppo realmente green, il numero di persone costrette a lasciare le proprie case potrebbe ridursi dell’80%, vorrebbe dire evitare a 44 milioni di persone di diventare migranti climatici. Mai prima d’ora, ci siamo trovati davanti ad una sfida globale di tale entità che, nelle sue multiple declinazioni, tocca il Sud e il Nord del mondo allo stesso modo. L’Africa, che sta sperimentando a pieno la mancata lungimiranza di un intervento preventivo globale per combattere il cambiamento climatico, dà l’opportunità a tutti di conoscere e studiare gli effetti di un clima impazzito, capirne la gravità e l’urgenza di porvi rimedio. D’altronde, un solo pianeta, un unico destino.

di Valerio Orfeo

 

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