ROMA – «Dobbiamo sopprimerli». «È pronta la siringa?». «Ogni cane morto è uno di meno…». È a partire da questi brandelli di conversazione, ora al vaglio degli investigatori, che riesplode il «caso Parrelli». Da decenni questa struttura sulla via Prenestina è nel mirino degli animalisti. Una guerra alimentata da voci su trattamenti «raccapriccianti», da polemiche sfociate in Campidoglio o in Parlamento, dai dossier in Procura. «Quel canile è un lager», s’infiammano molti siti e gruppi Facebook. Nel rifugio fondato 50 anni fa dal veterinario Giuseppe Parrelli e gestito dalla vedova Pina, la polizia nel 1994 trovò 90 cani e gatti nella cella frigorifera. «Sono stati uccisi e congelati», fu l’accusa poi rientrata. In seguito si parlò di cuccioli bruciati. Oppure ospitati in attesa di essere spediti in laboratori del Nord Europa. O usati come cavie. Il «Parrelli» divide, eccita gli animi. Il Comune, nei periodici sopralluoghi, giura però che è tutto in regola. No, la Pina è il diavolo, ribatte il tamtam sul web.  Adesso, però, non sono solo dicerie. Per la prima volta, registrati forse con un telefonino o, chi lo sa, da 007 animalisti dotati di «cimici», la Procura ha acquisito 4 file audio che proverebbero «una verità agghiacciante, ovvero la sistematica uccisione di animali» da parte di «un’operaia con l’avallo della datrice di lavoro». A consegnare il materiale ai carabinieri di Tor Bella Monaca è stata Loredana Pronio, presidente della Federazione italiana diritti degli animali. «Recentemente – dice l’esposto – alla sede della FederFida veniva recapitata della documentazione, che presumo provenga da ex volontari del rifugio Parrelli, composta da dischetti audio multimediali» contenenti «conversazioni intercorse tra la proprietaria Giuseppina Parrelli e la sua collaboratrice rumena Cristina».
Il primo dialogo avviene sullo sfondo di cani che abbaiano. «È maschio?» chiede la presunta signora Pina. «Sì», risponde la giovane. «Tutti quelli che possiamo sopprimere, li dobbiamo sopprimere. Tutti!» è la frase successiva. Seguita da un’avvertenza: «Bisogna non far vedere…».  Nel secondo file, che lascia immaginare l’arrivo di alcuni animali portati da un personaggio misterioso (la tratta dei cuccioli?), l’anziana si lamenta, borbotta: «Quanto mi piacerebbe sopprimerli tutti, che morissero tutti! Ormai questa è una mafia… Ormai non mi salvo da questi!». Ed eccoci al terzo brandello carpito, il più inquietante. Premessa: nel sito del rifugio c’è scritto che «gli animali sono tutti forniti di microchip anche per agevolare il controllo delle autorità sanitarie». Una dotazione importante, dunque, per garantire trasparenza e regolarità di gestione. Bene. Peccato che sembri emergere un quadro diverso. «Lo metti nel corridoio?» «Sì». E l’altra, con tono autoritario: «Il piccoletto, il maschietto… c’ha il microchip? No? Possiamo sopprimerlo! È uno di meno…» «Sì», torna ad annuire la straniera nel suo italiano quasi perfetto. La stessa voce che, nell’ultimo spezzone, bisbiglia: «C’ho la siringa, tutto pronto…».

A risentirle, queste chiacchierate, qualche brivido sulla schiena lo fanno correre. Le soppressioni sono giustificate? A quali loschi traffici si fa riferimento? E quel desiderio dal sen fuggito di ammazzarli tutti? Le conclusioni della presidente FederFida, rivolte alla Procura di Roma, sono categoriche: «Alla luce di quanto esposto, la scrivente sottopone al vaglio della S.V. tali gravissimi fatti». «Ho avuto molti processi, ma sono stata sempre assolta. La mia storia insegna che salvare un animale è la cosa più importante, anche a costo di subire ingiustizie», ha dichiarato in una recente intervista la vedova del veterinario. Santa o peccatrice in nome dei suoi trovatelli?

di Fabrizio Peronaci (corriere.it)

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