NAPOLI- Quello di Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore, da poco premiato al Festival di Berlino per il film “La Paranza dei bambini”, scritto a quattro mani con Roberto Saviano, è un viaggio, forse un sogno, in sella a una Ducati (un po’ ricorda la mitica Poderosa), nel profondo sud dove sbarcano i migranti in cerca di una vita migliore, della salvezza. Con il cielo sopra la testa e la polvere tra i piedi, Braucci parte da San Giovanni in Fiore, città calabra in provincia di Cosenza che custodisce le spoglie dell’abate eretico Gioacchino, perché a un certo punto ha sentito che «le categorie consuete del pensiero, le cornici per guardare e dare forma al mondo, erano diventate vecchie». Sopratutto per chi vive, come lui, in un quartiere di Na- poli, il Vasto (diventato Guasto), densamen- te popolato da migranti. Ecco che attraverso il movimento, la condizione dell’esistenza stessa degli uomini, lo sceneggiatore alterna incontri nelle strutture di accoglienza per migranti (quelle che il nuovo decreto sicurezza ridimensiona drasticamente) a speculazioni filosofiche, storiche, economiche e politiche, perché il fenomeno delle migrazioni è complesso e non riducibile alla pericolosa lettura degli invasi contro gli invasori. Ne esce fuori un vademecum che racconta di buone prassi di accoglienza e integrazione dei migranti sui territori, alcuni irrimediabilmente spopolati dal costante esodo dei giovani, che nulla hanno in comune con chi lucra sull’immigrazione e contribuisce al caos gettando fango sull’intero sistema e alimentando il mito dei migranti-delinquenti. Ma il viaggio di Braucci sulla Ducati-Poderosa apre a una riflessione sul Paese, sulla condizione degli italiani, figli senza più padre, orfani di una figura che protegge e accompagna. Una condizione di infelicità, ormai duratura, che si riverbera in maniera nevrotica (a volte violenta) sui migranti scampati alle torture perché gli italiani – scrive lo sceneggiatore – hanno «la percezione chiara e netta di essere or- mai un popolo estromesso dalla storia. Si sentono abbandonati dallo stato, che non si cura di loro se non come numeri dei suoi conti da far quadrare, e dall’Europa che li ha relegati alla funzione di un molo su cui la storia approda solo per travolgerli passandogli sopra con migliaia di disperati che invece non si danno per vinti e affrontano viaggi pericolosi pur di affermare la propria esistenza». Siamo allora destinati all’infelicità perpetua? Ecco che arrivano ancora in soccorso le parole dello scrittore: «Eppure qualcosa resta, perché proprio dalla presa di coscienza delle proprie miserie, può nascere un nuovo corso come aveva annunciato Gioacchino da Fiore. Per lui erano il vero amore e il vero spirito tutti da costruire. Ma non si farà se non lavorando duramente e cominciando a mettere i semi per un nuovo immaginario». Con questo pamphlet, fatto di polvere e cielo, Maurizio Braucci ha gettato il primo seme dandoci una chiave di lettura che ci spinge a trovare le risposte e le risorse dentro di noi, nei nostri confini nazionali, e non nelle tragedie di altri esseri umani.

di Ornella Esposito