La Formica Sghemba del giornalista Paolo Romano, edito da Scatole Parlanti, è uno di quei romanzi che apre una serie infinita di scrigni emotivi dentro i quali ognuno di noi ci ha messo in quiescenza pensieri, sensazioni, ricordi nitidi e opacizzati dal tempo, desideri rimasti ad attendere di essere esauditi, ferite rimarginate e cicatrici visibilmente dolenti.
È un libro che con la leggerezza dell’ironia spinge pesante, per forza uguale e contraria, dentro se stessi partendo da una crepa, la separazione, che è infrangersi di un’ideale di coppia e di famiglia, di una personale concezione dell’amore, ma soprattutto allontanamento forzato dal bene primario, il figlio, con il conseguente effetto di una ridefinizione cosmica delle distanze e delle vicinanze.
La separazione, è un nuovo e ineluttabile stato civile: “ma questo, soprattutto, per la prima volta sperimentai: c’erano cose che non potevo cambiare, fatti che se pure t’entrano nella vita senza bussare – e te la ingarbugliano pure ben bene – non puoi governare né mutarne il corso. Guardarli, piuttosto, con un senso di impossibilità operosa“.
Con la Formica Sghemba Paolo Romano agisce la propria «impossibilità operosa» – non fa mistero dell’esperienza personale -, facendoci dono di un romanzo ben scritto, divertente, funambolico e coscientemente allucinato, sostenuto da colonne sonore di massimo rispetto, che tra note lunghissime a piè di pagina, rivoli in cui si insinua la storia obliqua per poi ritrovare il letto principale del flusso e riallontanarsene nuovamente, e scorribande tra ricordi e scene di vita correnti, avanza sul filo della psicoanalisi nel tentativo di ricostruire i pezzi di esistenza di un padre che nell’età adulta rivive la primordiale e «impressionante cesura della nascita», giusto per citare Freud, quel trauma originario della separazione della diade, che è l’Uno. Perché anche i padri, nonostante il capostipite della psicoanalisi ci abbia spiegato che appaiono, rispetto alla madre, un po’ dopo nell’orizzonte psichico di un bambino, costituiscono un unum con i loro figli e doversene separare è lacerante.
Tra i pregi del libro di Paolo Romano, oltre a un lessico colto ma mai vezzoso e ad un sapiente uso dell’ironia come strumento per guardarsi dal di fuori, c’è quello di esporre, nel senso di mettere in mostra, la fragilità del genere maschile attraverso la scelta di non mostrarne per una volta i muscoli, ma di tratteggiarne i punti deboli, i sentimenti, a cui l’educazione siberiana dei nostri avi ha impedito l’accesso perché le emozioni sono roba da femminucce.
«Andando in giro per presentazioni  – racconta lo scrittore – ho ascoltato i commenti dei padri lettori che si trovano a vivere la condizione del distacco: ciò che li ha colpiti del mio libro è proprio la fragilità, visibile a occhio nudo, nella quale si cade con l’esperienza della separazione, la debolezza, la solitudine nelle scelte che molti provano ma di cui pochi parlano».
E rispetto alla quale, ne è convinto Paolo Romano, bisogna non solo parlare ma organizzare servizi di sostegno psicologico per quell’esercito di uomini deboli e per le loro famiglie, servizi gratuiti, s’intende, perché nella maggior parte dei casi la povertà dopo una separazione è dietro l’angolo.
«In questo, purtroppo, – continua il giornalista – l’Italia è divisa a metà con regioni, in prevalenza del nord, in cui esistono aiuti di tale genere ed altre ancora poco attrezzate».
Ecco il motivo (anche la mission) per cui parlare della Formica Sghemba: fa emergere una realtà dolorosa dai costi sociali altissimi e, specularmente, l’urgenza di offrire una risposta, di incentivare la nascita di luoghi utili a riparare ciò che si è rotto.
Intanto ad addolcire il dolore della separazione c’è la musica, infatti non è un caso se Paolo Romano in calce al suo libro ci mette in fila le sue (strepitose) colonne sonore. Un medicamento per le ferite di tutte le nostre «impressionanti cesure», occasioni per aprire varchi di luce dentro i quali fare entrare vita, ancora tanta vita.

di Ornella Esposito