NAPOLI – In una recente presentazione del mio primo libro “Terzo settore in fondo – Cronistoria semiseria di un operatore sociale precario” ho raccolto la testimonianza di un richiedente asilo, in fase di ricorso al Tribunale di Napoli contro il respingimento della domanda di asilo da parte della Commissione di Caserta.
Mi ha raccontato come il giudice, appena il ragazzo si è seduto, gli abbia chiesto se fosse musulmano.
Dato che la sua storia, per la quale ha fatto domanda di asilo, nulla ha a che vedere con problemi di tipo religioso, la domanda alla fine aveva questo senso: ci possiamo fidare di te? Non avrai mica strane intenzioni?

In un recente seminario che ho tenuto a giornalisti campani ho sentito farmi molte domande interessanti (la maggioranza per fortuna), ma anche le solite che girano da tempo: «non possiamo mica accoglierli tutti» oppure «ma questi non si vogliono integrare» e l’immancabile «siamo in crisi e questi tolgono il lavoro agli italiani».

Viaggiando sui mezzi pubblici, dove è più immediato raccogliere la vox populi, si percepisce una sempre maggiore diffidenza e sospetto verso i migranti.
Facile vedere un migrante che si siede su un bus e sentire qualcuno che mormora «questi oltre al lavoro mo’ ci tolgono anche i posti a sedere».
Inutile dire che se il migrante ha pure una bella barba lunga, ci si chiede con terrore se si sta per saltare in aria.

Sono tre esempi di come il clima sulle migrazioni è progressivamente cambiato nella nostra città, conseguentemente al peggioramento in atto in tutto il Paese, ed anzi in tutto il continente.
Ho fatto tre esempi non a caso, perché sono strettamente collegati e indicano il livello di allarme raggiunto.

L’episodio legato ai media può essere definito una delle cause di questo clima.
Se il Paese era impreparato ad un fenomeno migratorio così rilevante (che in Italia, rispetto a parte del resto dell’Europa, è comunque molto più recente), tale erano anche stampa e TV. Che quindi, non nel loro complesso ovviamente ma in parte significativa, hanno affrontato il tema nella maniera opposta a quella necessaria: invece di informare e spiegare, hanno riproposto stereotipi e alimentato insofferenze.
Ad esempio si è parlato di invasione senza dire che altrove in Europa (Germania, Svezia, Grecia e altri Paesi) i numeri erano e sono ben maggiori. O, ancora, che il Libano accoglie quasi 2 milioni di rifugiati su una popolazione di 4,5 milioni di libanesi.
Ma soprattutto si è parlato sempre di numeri e quasi mai di cause.

L’impatto sulla popolazione italiana e napoletana, e dunque la vox populi di cui sopra, è stato conseguente. Con un progressivo peggioramento nel momento che incomincia a passare addirittura il nesso migrante/potenziale terrorista.
Ma su questo si può ancora lavorare. L’opinione pubblica è molto volatile, e tornando a parlare del tema in modo corretto si può provare ad invertire la tendenza.

Ma se questi stereotipi arrivano anche in un’aula di tribunale vuol dire che siamo passati ad un livello più alto e più pericoloso. Dal quale si rischia sia difficile tornare indietro.
Da qui la domanda iniziale: Napoli è ancora una città accogliente?
Forse, ma non come in passato.
E poi dipende da cosa si intende per accoglienza.
Accoglienza non è semplicemente un letto e del cibo, ma è essenzialmente diritti e servizi.

Non sono le cittadinanze onorarie ai migranti, ma uffici e servizi pubblici che offrano risposte alle domande ed ai bisogni. Dei migranti come dei napoletani.
Non sono le sfilate nei costumi tradizionali o le iniziative di “cucina etnica”, ma campagne informative serie ed efficaci sulle cause che spingono le persone a cercare protezione e un futuro migliore da noi.
E soprattutto è anche un settore economico importante ma non è un business. Altra associazione che ormai in molti fanno, e qualche motivo di pensarlo lo hanno avuto negli ultimi tempi, basti pensare a Mafia Capitale ma anche ad altri scandali emersi anche in Campania.

Ergo, se vogliamo tornare ad essere una città accogliente dobbiamo sì educare gli altri, ma rieducare anche noi operatori del settore, e chiedere alle istituzioni di fare di più e meglio.
Ognuno mantenendo i propri ruoli distinti. Che è un altro dei problemi, che sicuramente affronteremo in futuro.
In definitiva bisogna dare ai cittadini informazioni corrette, un welfare diffuso che non causi più guerre tra poveri, e un’evidenza di attività serie e responsabili da parte del terzo settore.
Così possiamo invertire la tendenza.
In caso contrario la tradizionale “accoglienza” dei napoletani finirà per essere definitivamente solo un bel ricordo.

di Marco Ehlardo

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