stranieri_in_italiaMILANO. Anche i numeri possono tracciare dei volti, dar loro un corpo, collocarli in uno sfondo. Un uomo passa la calce sul muro, arrampicato su un ponteggio a Milano, è arrivato dall’Albania. Un venditore ambulante s’aggira per le strade di Torino, è partito molti anni fa dal Marocco. Un terzo s’alza all’alba per mungere vacche nella Bassa Bresciana, è nato in India. Un profilo di donna, impiegata come badante, vive a Napoli, è ucraina. Oppure una colf, intenta a rifare i letti in un appartamento veneto, probabile che sia moldava. Ci sono i dati della presenza straniera in Italia (4.570.317 al primo gennaio 2011 per l’Istat), le cifre che raccontano di che nazionalità sono (primi i romeni, 968 mila), quanti minori (1.038.275), quanto lavorano e con che stipendio, tutto scritto nell’ultimo Rapporto sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa di Venezia, specializzata sul tema. E poi c’è un modo diverso di leggere le tabelle, scomponendole e aggregandole di nuovo per comunità, e tirando fuori per le prime dieci più numerose un identikit dei nuovi abitanti d’Italia. È il lavoro che ha appena concluso Marta Cordini, giovane ricercatrice della Fondazione Moressa, che da questo gioco delle carte d’identità ha capito molte cose. Anche sul desiderio di ottenere la cittadinanza italiana, che resta comunque meta per pochi (0,8 per cento).
 
«Tra le comunità emergono differenze interessanti — spiega Cordini — che derivano non solo da ragioni economiche, ma soprattutto dai tratti culturali, dai progetti migratori, dalle reti etniche». La distribuzione territoriale, per cominciare. I cinesi che prendono casa a Milano, a Firenze, a Prato, ma anche a Treviso e Reggio Emilia. Per ragioni di ricerca del lavoro, certo, che resta la spinta principale: «È il motivo per cui gli immigrati continuano a essere più numerosi al Centro e al Nord e nelle grandi città». Ma rimane fondamentale per orientare i percorsi la presenza di reti di connazionali, meglio ancora se parenti, che hanno già una storia di insediamento nei Comuni italiani. La maggior parte dei tunisini si è stabilita nel Ragusano, per esempio: si spiega con gli storici scambi tra le due coste del Mediterraneo e con gli ultimi sbarchi sull’onda delle primavere arabe. Ma una forte presenza si registra anche a Modena più che a Milano, o a Parma più che a Roma. La comparazione tra gli identikit racconta anche di una disparità tra le retribuzioni. Le comunità arrivate per prime hanno maturato maggiori capacità contrattuali, riescono a far valere meglio i propri diritti. I filippini, invece, per la maggior parte impiegati part time o comunque a orari ridotti in attività domestiche, spesso anche in nero, fanno registrare salari più bassi. Trasversale è, invece, la differenza tra le paghe di uomini e donne. Vale per gli italiani come per gli stranieri, «un po’ più lieve tra i cinesi, che spesso hanno attività commerciali a conduzione familiare — continua Cordini —, raggiunge punte molto alte tra i marocchini, con una differenza anche di 380 euro al mese». Le donne provenienti dall’ex blocco sovietico, in particolare, «soffrono di sotto inquadramento: svolgono mansioni inadeguate al titolo di studio, che spesso è superiore a quello dei connazionali maschi». Sono laureate, ma lavorano come domestiche o portinaie. A volte, arrivate in Italia, cercano di riscattarsi, frequentano corsi di specializzazione, conquistano diplomi da operatrice sanitaria, per esempio. Così, se il 37,5 per cento delle romene è impiegato nella cura alle persone, si scopre che l’11,2 lo fa in maniera qualificata. Magra consolazione per le lavoratrici: la crisi ha colpito di più gli uomini, e tra questi soprattutto est-europei e africani, perché ha bersagliato maggiormente il settore delle costruzioni e della manifattura, risparmiando, in parte, il lavoro domestico. Tenuto conto che la disoccupazione tra gli stranieri ha registrato nel complesso un incremento di quattro punti: dall’8 al 12-13 per cento. Il desiderio di diventare cittadini italiani è un altro tratto che descrive il profilo dei nuovi abitanti: la comunità più numerosa è quella romena, ma in cima alla lista di chi ha chiesto e ottenuto la cittadinanza ci sono i marocchini (6.952 nel 2010) e gli albanesi (5.628). Perché sono arrivati da più tempo in Italia, e quindi hanno raggiunto per primi i requisiti per presentare la domanda (innanzitutto i dieci anni di residenza). E anche perché sono più motivati a diventare cittadini europei e a conquistare mobilità all’interno delle frontiere dell’Unione, rispetto a chi viene dalla Romania che dal 2007 è nella Ue. Ancora, più spesso presentano i documenti i sudamericani (i peruviani sono quarti, seguiti dai brasiliani) perché in alcuni casi riescono a risalire ad avi italiani e a beneficiare dello ius sanguinis (italiano chi è discendente di italiani). Per le seconde generazioni, invece, qualunque formula di ius soli (italiano chi nasce in Italia) venga introdotta nel nostro ordinamento, già si segnalano delle diversità interessanti. A fare più bambini sono ancora marocchini, tunisini e indiani. Pochi, invece, i figli per le ucraine, le moldave e le polacche. «Perché i modelli migratori sono diversi», spiega la ricercatrice. Africani e asiatici chiamano spesso in Italia mogli e bimbi con i ricongiungimenti e si insediano qui con tutta la famiglia. Le donne dell’Est arrivano spesso da sole, in età più matura, mariti e figli rimasti in patria, anni e anni di fatica e di soldi accumulati con l’idea poi di tornare indietro. Tra la crisi e i nuovi modelli culturali, però, asiatiche e africane stanno cominciando a fare meno bambini, e in stagioni sempre più avanzate, come le italiane. Alla fine, in tempi lunghi, i profili sono destinati a sovrapporsi.

di Alessandra Coppola (da Corriere.it)

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