Nessuna possibilità di ricevere cure sanitarie, trovare un lavoro, affittare una casa con le proprie credenziali. Per i suoi figli, che si trovano nello stesso limbo, si aggiungono pure le difficoltà nel poter frequentare una scuola superiore. Ivan (nome di fantasia), di origine croata, ha circa 40 anni e vive all’interno del campo rom di Cupa Perillo nel quartiere di Scampia dove è nato da papà macedone e mamma kosovara. Si tratta di un’area spesso balzata agli onori della cronaca per le pessime condizioni sanitarie, igieniche a discapito della salute di chi ci vive e anche dei residenti dei condomini circostanti e degli studenti delle scuole del posto. Come tantissime altre famiglie di origine balcanica cresciute in Italia è privo di residenza a causa di alcuni vincoli normativi come quelli contenuti nel decreto Lupi, convertito con la Legge 80/2014, che all’art 5 comma 1 recita: “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”. Molti ostacoli per la cittadinanza e la residenza per chi proviene dai Balcani, peraltro, rimandano ad ulteriori vincoli normativi sorti dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la formazione dei vari Stati dopo le terribili guerre degli anni ’90.

Il racconto di Ivan – Per Ivan, come per gli altri, non avere una residenza in concreto significa la preclusione all’accesso ai servizi essenziali garantiti dalla nostra Costituzione. Attualmente in affidamento all’associazione di promozione sociale “Chi Rom e Chi No’’ di Scampia, (dove si trovano anche lo spazio gastronomico di Chikù e l’impresa sociale che opera nel campo della gastronomia multiculturale La Kumpania Srls), l’uomo esterna il suo disagio. «Attualmente ho la residenza bloccata dopo il sequestro anni fa delle aree del campo rom di Cupa Perillo da parte dell’autorità giudiziaria (lo dispose il tribunale di Napoli nel luglio 2017, un mese dopo ci fu un devastante incendio, ndr). Ho fatto la domanda per avere la cittadinanza italiana, ma dopo oltre un anno sono ancora in attesa che me l’accettino. Anche i miei 5 figli, come me, non hanno i documenti. Per iscriverli a scuola sono dovute intervenire le associazioni come Chi Rom e Chi No la comunità di Sant’Egidio». L’unico figlio maggiorenne, che oggi ha 19 anni, aggiunge Ivan, sprovvisto della residenza «si è dovuto fermare al conseguimento del diploma di scuola media senza andare oltre». Non solo, Ivan ricorda con rammarico: «Se avessi bisogno di cure sanitarie, potrei essere visitato al pronto soccorso senza però andare oltre. Se dovessi morire, andrei incontro alle stesse difficoltà di sepoltura di Davide, il ragazzo di 21 anni morto folgorato che io conoscevo sin da piccolo visto che anche lui abitava nel campo a Cupa Perillo. Se qualcuno di noi se ne andasse prima del tempo dove ci buttano, nella spazzatura?». L’esistenza di Ivan e della sua è nei fatti oggi sospesa perché senza residenza appare ancor più complicato anche trovare lavoro e provvedere in proprio per un alloggio, che senza la residenza non potrebbe comunque né affittare né comprare. «La domanda della cittadinanza l’ho fatta per i miei figli, per dare loro delle opportunità. Quando siamo andati a chiedere, ci hanno detto che senza cittadinanza non si può avere la residenza. In Belgio, Francia o Germania non è così: se avessi avuto un figlio nato lì, automaticamente sarebbe diventato cittadino di quei Paesi». Barbara Pierro, avvocato e presidente di Chi Rom e Chi No dà poi un’ulteriore lettura della vicenda. «Nel campo rom di Cupa Perillo – spiega – non c’è nessuna occupazione abusiva perché non ci sono proprio gli immobili. Possiamo parlare soltanto di abitazione di fortuna e baracche in cui abitano persone che sono oggi nate in Italia o che sono arrivati con lo status di rifugiato politico e che non hanno più potuto ottenere il permesso di rifugiato». Pierro sottolinea anche come tra le persone di origine rom ci siano «tantissimi apolidi, in quanto minoranza non riconosciuta in Italia a causa dell’assenza del requisito della territorialità. La questione apolidia è molto forte».

di Antonio Sabbatino

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