Cani antidroga e metal detector a scuola: alla “Marie Curie” di via Argine a Napoli, in un momento di apparente calma, la preside ottiene controlli agli ingressi da parte della polizia. Lo ha riportato il quotidiano Il Mattino nei giorni scorsi. L’iniziativa apre un dibattito sugli strumenti per fronteggiare l’emergenza armi tra i minori e se il direttore dell’Usr, Ettore Acerra, pensa che «scelte del genere sono deterrenti in zone a rischio» (lo ha detto all’agenzia giornalistica Agi) e la preside della Curie, Valeria Pirone, ha detto che gli studenti hanno inteso i controlli come «concreta presenza dello Stato», il mondo del volontariato s’interroga sulle conseguenze che un’azione così forte può avere sul rapporto fiduciario alla base del meccanismo educativo.
«Conosciamo bene questa scuola e il corpo docenti, composto da persone appassionate che da sempre operano nell’interesse degli studenti, per cui è stata di certo una scelta molto sofferta. Interventi di questo tipo, infatti, rischiano compromettere la fiducia alla base del rapporto educatori-studenti. Se si è arrivati a questo, qualcosa non ha funzionato e dobbiamo interrogarci, tutti». Lo ha detto Pasquale Leone, referente di Libera Napoli, scout, con una esperienza ventennale da volontario nelle scuole di frontiera.
Luoghi in cui la prudenza non è mai troppa, visto che casi di aggressione tra minori sono ormai all’ordine del giorno in tutta Italia: appena qualche giorno fa, a Roma, un 17enne è stato accoltellato a scuola da un compagno di classe. E anche alla “Curie” si è andati oltre le “innocue” scazzottate tra ragazzini visto che, nel settembre 2023, un quindicenne fu ferito da un altro studente con un’arma da taglio. Da quel momento, comunque, non si è avuta notizia di altri gravi casi di violenza, tuttavia se la preside ha richiesto l’intervento della polizia sospetta il fenomeno non sia superato. D’altronde, qui come altrove, molti ragazzi ammettono di uscire di casa con il coltello per potersi “difendere”. Un clima da far west nel quale la scuola non può farsi trascinare e, contro il quale, la dirigenti si è vista obbligata a una scelta impattante.
«L’istituto da 15 anni fa parte della rete di Libera, siamo tutti responsabili- continua Leone- Nei nostri percorsi inseriamo le testimonianze dei familiari delle vittime; ascoltando le loro storie se i ragazzi interagiscono, empatizzano o si fermano a riflettere, anche solo per un momento, abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Comprendere le conseguenze del ricorso alla violenza, il dolore che provoca al prossimo, immedesimarsi, innesca analisi introspettive anche nei cosiddetti bulli, nei ragazzi a rischio, o che hanno dei trascorsi aggressivi». Nel tempo, però, riflette Leone, la reazione degli studenti si è intiepidita. «I ragazzi sono spesso presi dall’indifferenza, dall’incapacità a emozionarsi e a empatizzare – spiega -, questa freddezza può generare violenza, è la banalità del male. Ed è su questo black out emozionale che dobbiamo insistere, portando ai ragazzi i racconti di chi ha avuto la propria vita stravolta dalla violenza. E di chi è stato depositario della fiducia altrui in un momento in cui aveva commesso degli sbagli; una pacca sulla spalla può essere più efficace della puntura di uno spillo, per dirla con Powell, Dobbiamo ridare fiducia ai ragazzi, in sé stessi, nel prossimo e nel futuro. Contesti isolati e isolanti, costituiscono il campo sul quale seminare per creare coesione e identità. La memoria è un collante, lo sono il dialogo e il confronto. Fare rete è l’unico modo che conosciamo per proteggere i ragazzi e dar loro le opportunità. Non li lasceremo soli» conclude Leone.