DSC_0311SALERNO- Macsen e la sua mamma Zahaj sono sbarcati la scorsa settimana al molo Manfredi del porto di Salerno. Zahaj dice di avere 19 anni, anche se ne dimostra molti di meno: magra e piccola di corporatura, con grandi e bellissimi occhi marroni, ha il viso, le mani e le braccia deturpate dalle fiamme che non hanno risparmiato neanche il suo piccolo di 2 anni in un incendio nel campo profughi in Libia dove aspettavano di imbarcarsi per l’Italia. Un viaggio iniziato nel 2011 per Zahaj e suo marito, partiti da un paesino vicino Asmara, in Eritrea e diretti in Germania. Poi la separazione un anno fa, il marito raggiunge la Germania e riesce a trovare lavoro, è ospitato in un centro di accoglienza e ha la possibilità di ricongiungersi con moglie e figlio rimasti in Libia o chissà in quale terra di confine ad aspettare. Per sette mesi questa mamma, che ha lo sguardo di una bambina, ha portato in braccio suo figlio nel deserto, si è presa cura di lui, ha camminato, si è accampata in tendopoli, lontana da casa, dalla madre e dal padre, dalle sue tre sorelle e dal fratello di cui non ha notizia dal 2008. Viaggi dei quali si ha paura di parlare o forse non si può.
IL VIAGGIO- Si parte alla cieca e si aspetta, per imbarcarsi, anche la disponibilità della Libia nel far passare, o meno, i migranti a volte facendo percorsi alternativi che allungano questi viaggi a dismisura. Zahaj di questo non vuole parlare per paura di creare problemi agli altri o perché le è stato detto così.  Ha un’ingenuità tipica della sua età che le hanno dato il coraggio di salire su quel barcone un sabato mattina. Ora è al sicuro,  ricoverata, insieme al suo piccolo nel reparto di Chirurgia pediatrica dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno. Si stanno prendendo cura di lei, i medici, la dottoressa Cerbo e gli infermieri che l’anno accolta la scorsa settimana: «Ha paura che non la facciamo andare via da qui, è giovane, è innamorata- scherzano le infermiere invogliandola a mangiare – ci dispiace per lei, potrebbe essere nostra figlia».

di Sara Botte

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