«Nei giorni in cui la diffusione del covid-19 iniziava a raggiungere il picco massimo, ho visto la cartina geografica dell’Italia segnata da punti rossi nelle zone più drammaticamente colpite dal virus, letto i numeri dei decessi e contagiati e ne sono rimasto molto impressionato. Quell’immagine è stata così forte che in quel preciso istante, dentro di me, ho sentito di dover partire per andare in soccorso di chi stava peggio».
Così esordisce Umberto De Maria, napoletano, medico-chirurgo di lungo corso, attualmente in servizio presso l’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, che ha risposto all’avviso della Protezione Civile per il reclutamento di trecento medici volontari da destinare ai nosocomi delle regioni colpite in maniera violenta dal virus come la Lombardia, l’Emilia Romagna e le Marche.
Quella di Umberto De Maria è stata una vera e propria scelta etica e solidale su cui non ha mai avuto esitazioni, nonostante molti dei suoi colleghi glielo sconsigliassero e la famiglia avesse comprensibile timore per la sua salute.
«Il mio ospedale – continua il medico – non è stato convertito per accogliere le emergenze, ed avendo sospeso gli accessi programmati mi sono sentito quasi inutile come medico in un momento in cui, ogni giorno, morivano decine di persone e gli stessi colleghi».
Infatti, ciò che ha reso necessario la “chiamata alle armi” di medici volontari e infermieri è stato proprio il massiccio contagio, in alcune regioni, del personale sanitario, sempre più scarso a fronte del costante aumento di ricoverati per covid.
«Sono stato destinato all’ospedale di Urbino – spiega il sanitario – dopo aver svolto a Roma, con tutti gli altri colleghi volontari, un incontro alla presenza del Capo della Protezione Civile, efficientissima, in cui ci hanno dato istruzioni e direttive per lo svolgimento del nostro servizio. Quell’incontro mi ha emozionato molto perché mi restituiva una chiara fotografia della gravità della situazione e di conseguenza la convinzione di stare facendo la cosa giusta».
All’Ospedale di Urbino il dottor De Maria ha trovato un’organizzazione perfetta, sia all’interno della struttura sanitaria sia nell’assistenza domiciliare ai positivi al tampone, e toccato un’umanità davvero incredibile: tutti, tra personale medico e paramedico, hanno lavorato senza risparmiarsi comprendo turni infiniti e con la consapevolezza della necessità del proprio operato.
«Davanti a una situazione così drammatica, – racconta il dottore De Maria – mai vista nonostante gli anni di servizio, non ho potuto fare altro che restare in ospedale fino a quando era necessario, soprattutto perché ero volontario. Poi la circostanza, per i pazienti, di non poter avere contatti con i propri familiari mi ha portato a curare con maggiormente la relazione con gli ammalati, più fragili perché soli».
Ed è in questa intercapedine tra la sofferenza e chi ha il compito di alleviarla che si annida quel sentimento di pietas, regalandoci la speranza di un mondo migliore ancora possibile.
«In ospedale era giunta una donna giovane gravemente compromessa da un tumore e contagiata dal virus. Era agli sgoccioli e il marito non poteva vederla. Negli ultimi minuti di vita, ho fatto sì che la donna fosse posta da sola in una tenda e venissero forniti al marito i dispositivi di sicurezza e le istruzioni necessarie per evitare il contagio così da farlo entrare nella tenda. Quella donna non poteva andarsene via da sola, né il suo compagno di vita essere privato dell’ultimo saluto».
«Ma ricordiamoci – chiosa il medico volontario – che il covid non è l’unico nemico da combattere: la fame è ancora oggi la prima causa di morte nel mondo».

di Ornella Esposito