La socialità ormai è moribonda e dopo il Covid-19 non si riprenderà più? Nessuno di noi ha la sfera di vetro o è un novello Nostradumus per conoscere il futuro che ci aspetta.

E’ possibile, però, fare alcune considerazioni che ci aiutano a leggere quello che sta accadendo e quello che potrebbe accadere. In questo momento, inevitabilmente, è stato “ordinato” di ridurre al contesto abitativo i propri movimenti. Questo significa per molti intensificare le relazioni familiari, per altri rimanere da solo in casa, per altri ancora acuire i conflitti più o meno espliciti con le persone più vicine (mogli, mariti, compagne, compagni, figli, conviventi, etc). La vita quotidiana nella società contemporanea era fino a qualche settimana fa svolta prevalentemente all’esterno: per motivi di lavoro, scuola, divertimento, socialità, ma anche per la presenza di problemi individuali e sociali. Ad esempio, le persone con disabilità, gli anziani potevano essere confinati in casa per problemi contingenti, ma le famiglie, il terzo settore, il vicinato quando presente “costringevano” alla socialità esterna. Insomma, nel giro di pochissimo tempo siamo passati improvvisamente dal “tutti fuori” al “tutti a casa” senza nemmeno rendersi conto di quello che stava accadendo. Una situazione non facile da accettare, poco comprensibile all’inizio, carica di timori e di ansie crescenti, poco sostenuta da un punto di vista comunicativo.
La comunicazione dell’emergenza è stata poco precisa, ha creato confusione e panico in alcuni casi, non ha certamente contribuito a far capire alla maggioranza delle persone l’eccezionalità del momento. Quindi innanzitutto un problema di percezione collettiva a macchia di leopardo che non è stata sostenuta da un processo conoscitivo adeguato (anche per la novità dell’evento epidemico). Questo ha creato disorientamento iniziale e una crescita della paura per l’ignoto. In queste condizioni che hanno coinvolto l’intera popolazione del Paese, seppur a livelli differenziati sia di intensità (il Nord più che il Sud) sia temporali (prima il Nord e poi il Sud), il cambiamento nella percezione e nell’agire della socialità è un dato ormai consolidato. Quali reazioni possibili sono state adottate? 
Una parte minoritaria ha continuato nell’idea che si potessero mantenere le relazioni precedenti. Gli altri hanno reagito in modo differenziato. C’è chi ha mantenuto (una minoranza) le relazioni attraverso i media e i device digitali che già usava abitualmente. Quindi e-learning, ma anche videoconferenze per continuare meeting e riunioni, cloud e wiki per costruire, monitorare e realizzare progetti di azione sociale, di ricerca, di valutazione, integrando con i social media per costruire nuove relazioni e mantenere quelle esistenti. Un’attività che non ha interrotto né le reti relazionali né tanto meno la possibilità di progettare un futuro che ancora non si delinea, ma che già adesso è possibile intravedere.
Altri hanno scoperto alcuni media e device digitali penso soprattutto ai docenti della scuola e anche a molti docenti universitari tuttora ancorati ad una metodologia didattica autoritaria e incapace di pensare altro dalla lezione cattedratica. Seppur con difficoltà, hanno sperimentato che esiste un altro modo di portare avanti le relazioni. Altri ancora hanno scoperto nella “costrizione” casalinga che ci sono strumenti digitali per poter mantenere le relazioni che vanno al di là dei social media. Molti sono rimasti legati alle modalità e agli spazi offerti dai social media. Che cosa sta accadendo invece al terzo settore? Qui la questione si complica ulteriormente perché alcune delle attività hanno la necessità di rimanere a contatto diretto fra le persone: nei servizi, nelle comunità terapeutiche, nelle comunità per minori, nelle mense, nelle attività di supporto e di sviluppo delle relazioni nelle comunità. In tutti questi luoghi non esiste la possibilità di avere alternative al modo di costruire relazioni faccia a faccia. Ovviamente immaginare modi diversi è possibile anche in questo caso, provando a immaginare servizi e attività blended, ovverosia parte in presenza e parte a distanza, con l’uso innovativo di alcuni device di realtà aumentata e virtuale che sono disponibili da tempo.
Altre attività invece potrebbero essere immaginate attraverso l’uso di media e device digitali come ad esempio le attività inerenti i processi organizzativi e i processi democratici. Qui il problema più importante: il terzo settore ha percepito poco come il cambiamento di paradigma conseguenza della digitalizzazione. Se la percezione c’è stata, è stata soprattutto di tipo strumentale (per la visibilità, per la promozione) e non di tipo funzionale o come obiettivo. La possibilità di costruire relazioni sul territorio non passa solo dalla comunicazione interpersonale faccia a faccia che seppur importante è solo una delle modalità con le quali le persone possono condividere emozioni, conoscenze ed entrare in empatia. Non solo, ma anche la possibilità di immaginare il futuro della propria comunità non passa solamente dal processo democratico rappresentativo che passa dal voto popolare e attraverso i rappresentanti eletti.
Esistono nel mondo molte esperienze che hanno provato a sperimentare piattaforme digitali comunitarie sia per mantenere le relazioni interpersonali e per costruirne di nuove sia per attivare processi democratici e decisionali molto più consapevoli e partecipati. Questo futuro è già adesso. Le esperienze di Molo.news a Brema o l’uso della piattaforma Loomio in alcune realtà italiane ed internazionali sono esempi di alleanze fra terzo settore, comunità e istituzioni che vanno al di là dell’emergenza COVID-19.
Di cosa abbiamo bisogno? Sono due i percorsi da seguire: la crescita della consapevolezza che il mondo è cambiato già da tempo prima del virus e una formazione diffusa che abbia come obiettivo la sperimentazione e la realizzazione di questi nuovi mondi. Tutto è possibile, basta volerlo, pensarlo, agirlo.
di Andrea Volterrani
Sociologo dei processi culturali e comunicativi