«Durante la prigionia in Libia mi hanno usato come bersaglio umano, rendendomi quasi cieco. Poi viaggiando su un gommone per arrivare in Italia, sotto i miei occhi ho visto morire uomini e donne a decine. Ma ho pregato Dio e così sono riuscito a sopravvivere». Si commuove mentre racconta il dramma vissuto. Sanna Manneh ha 20 anni e viene dal Gambia – nell’Africa occidentale – come il cugino Buba Manneh e Lamin Saidykhan, entrambi suoi coetanei. Insieme a loro e a Famakan Keita, che di anni ne ha 19, i quattro ragazzi vivono in Italia da oltre tre anni e mezzo, dopo un incontro in Sicilia che ha cambiato le loro vite. Quello con Antonio Mattone, della Comunità di Sant’Egidio e sua moglie Gabriella Pugliese, i loro «papà e mamma napoletani», che li hanno salvati da un destino incerto una volta sbarcati dalla Libia sulle coste siciliane. A tracciare le tappe di questa lunga e bella storia di integrazione è per primo Lamin. Scappato, come gli altri due, dal suo Paese per sfuggire alla dittatura di Yahya Jammeh durata 23 anni, Lamin è arrivato in Italia il 9 giugno 2014. «Quando partii dalla Libia su un barcone eravamo 104 persone. Lì ho incontrato Sanna, Buba e Famakan». Il passato riaffiora di continuo nella mente di Lamin. Specie quando da bambino andava a scuola e a pescare per aiutare la famiglia. «Trasportavo cassette con bibite. Poi fui rapito da una banda che, per rilasciarmi, voleva un riscatto. Allora scappai e viaggiai per 23 settimane prima di raggiungere l’Italia». La prima tappa fu Pozzallo (Ragusa), dove il ragazzo fu accolto in un centro di prima accoglienza. «Ci rimasi una notte, poi mi trasferirono a Portopalo di Capo Passero (Agrigento), dove invece di tre giorni insieme agli altri minori siamo rimasti tre mesi». Ed è qui che lui e i suoi amici hanno incontrato Mattone e la moglie. «Non li ringrazieremo mai abbastanza per averci donato una nuova vita», sottolinea il ragazzo, che vive con Buba all’Istituto dei Salesiani al Vomero. Lamin ha usufruito di un tirocinio lavorando da Mc Donald’s. «Adesso ho finito, ma sono in attesa di altro», dice. Tifoso degli azzurri, sogna di diventare un calciatore. «Ho giocato nel ruolo di difensore nella squadra del Cantalice (Rieti) durante la permanenza in un altro centro di accoglienza – spiega – e ora vorrei incontrare il mio mito, Hamsik». Ma insegue anche un altro sogno Lamin: iscriversi a Ingegneria meccanica. Sogni che s’incrociano con quelli degli altri tre. Ma che si scontrano con un passato indelebile. Come quello di Buba: «per venire in Italia ho impiegato un anno e tre mesi. Sono stato prima in Senegal, poi in Mali, in Niger e infine in Libia, da dove sono partito a bordo di una pick up, dove eravamo in 27 ammassati l’uno sopra l’altro, finanche donne incinte. Ne ho visti morire tanti ma non potevo aiutarli perché mi avrebbero ammazzato». Anche Buba lavorava da Mc Donald’s e ora è in attesa di un nuovo lavoro. E come Lamin ama il calcio: «Il mio idolo è Mertens». «Ma la cosa che più mi piace – aggiunge – è vivere a Napoli. Qui non è l’inferno che dicono». Toccante la testimonianza di Sanna, che oggi lavora nel servizio civile della Caritas di Castellammare. «Il mio terzo papà è il direttore, don Domenico Lenenti. Grazie a lui sono andato nelle scuole a raccontare la mia storia ed è stato emozionante vedere i ragazzi commuoversi dopo aver ascoltato dal vivo qualcosa che di solito sentono in tv». Sanna, che a un convegno ha ricevuto anche l’abbraccio del ministro della Difesa Roberta Pinotti, ha vissuto un’esperienza drammatica in Gambia: «lì i diritti umani non esistono, non c’è libertà di pensiero». Ma le ferite più profonde per lui sono quelle che gli hanno segnato fisico e animo: «un giorno insieme ad alcuni amici stavamo andando a un forum e le milizie ci fermarono portandoci in un casolare abbandonato, dove ci hanno picchiato per settimane con armi, calci e pugni. Ho rischiato di perdere la vista, perché mi hanno colpito con una fionda e ho dovuto sottopormi a un delicato intervento, ma non vedo più bene come prima», racconta. E soprattutto anche per lui l’odissea degli interminabili viaggi dal Gambia alla Libia per raggiungere l’Italia: «è durato tre mesi camminando a piedi nel deserto in mezzo alle mine». Infine Famaka, 19 anni, accolto da don Carmine Giudici, parroco della Cattedrale di Sorrento. Partito dal Mali a 14 anni, è orfano di padre e ha vissuto il calvario del carcere in Libia: «Una signora mi aveva accolto in casa, ma quando sono uscito mi hanno fatto prigioniero per 8 mesi». «Intorno a loro si è creata una grande rete di solidarietà, integrazione e accoglienza», aggiunge Mattone. E a suggellarla ci sono i sorrisi di Lamin, Buba, Sanna e Famakan scappati da un inferno dove, per fortuna, non torneranno più.

di Giuliana Covella

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