FIRENZE.«Per noi non sono barboni o senzatetto, ma ‘amici di strada’». Così esordisce Paolo Coccheri, fondatore nel 1993 a Firenze della prima ‘Ronda della carità e della solidarietà’. Un’associazione di volontariato onlus che ogni sera compie un giro attraverso la città per aiutare e soccorrere chi ne ha più bisogno.  A vent’anni di distanza dalla prima ronda fiorentina, la buona prassi si è estesa a livello nazionale, tanto da essere presente in 74 diverse città italiane. «L’iniziativa è cresciuta – ha affermato Paolo Coccheri – grazie al contributo dei nostri volontari, che oggi sono quasi quarantamila in tutta Italia. È stata una fortuna che così tante persone abbiano voluto unirsi al nostro gruppo perché l’aumento del fenomeno migratorio e l’avvento della crisi economica hanno fatto sì che si triplicasse l’utenza di persone bisognose». Tra queste non ci sono solo clochard, ma anche coloro che uno stipendio e un tetto ce l’hanno, eppure non riescono ad assicurarsi un pasto caldo. «Secondo un recente rapporto della Caritas – prosegue Coccheri – il 9% di questi ‘amici di strada’ sono persone laureate, il 22% sono in possesso di un diploma. In aumento sono anche gli immigrati e coloro che si trovano a perdere il posto di lavoro a quaranta o cinquant’anni. La loro è una crisi psicologica, prima ancora che economica». Fondamentale, quindi, l’ascolto sia da parte delle associazioni di volontariato che delle istituzioni pubbliche. «La Toscana – sottolinea Paolo Coccheri-   è un grosso esempio di civiltà e di solidarietà.  Sono moltissime le realtà che si interessano a questi problemi, sia laiche che religiose. A Pistoia la ronda è gestita dalla Misericordia, a Prato dalla Caritas. A Grosseto invece è squisitamente laica». Un “esercito” misto che non porta solo aiuto, ma anche conforto e speranza. «La nostra è una società malata – conclude Paolo Coccheri – in crisi di rapporti umani e di motivazioni per andare avanti. Per questo ho creato un’altra rete che si chiama ‘Pronto Intervento Speranza’. Non si può morire di fame, ma nemmeno di solitudine».

di Silvia Aurino

 

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