USA. Trecentosessanta mila dollari di imposta di successione chiesti dal Fisco Usa a Edith Windsor perché il coniuge defunto dal quale ha ereditato la casa in cui vive era una donna come lei: è questo il caso che, dopo tante discussioni e votazioni di singoli Stati americani, potrebbe portare, a livello nazionale, a una vera equiparazione delle unioni gay a tutti gli altri matrimoni. Una svolta storica che potrebbe materializzarsi nei prossimi mesi al termine di una battaglia davanti alla Corte suprema che inizierà negli ultimi giorni di marzo quando i giudici costituzionali affronteranno una serie di casi delicati: dalla situazione della California dove la decisione della locale Corte suprema che aveva dichiarato legali le unioni gay è stata contraddetta da un referendum popolare del 2008 che ha, invece, disposto la messa al bando di questo tipo di matrimoni, alla legittimità della legge del 1996 che, solo ai fini amministrativi federali, riconosce come matrimoni legittimi esclusivamente quelli tra un uomo e una donna. Venerdì sera Barack Obama è intervenuto in questo processo con un atto senza precedenti: ha ordinato al ministero della Giustizia di presentarsi davanti all’Alta Corte sostenendo la tesi dell’incostituzionalità del Defense of Marriage Act, la legge del 1996 che, dalle pensioni all’assistenza sanitaria, penalizza sul piano economico le coppie gay. Un atto che non può essere certo definito sorprendente, vista l’evoluzione delle posizioni del presidente sulla questione. Rimasto a lungo freddo su questo tema spinoso, Obama lo scorso anno è divenuto un sostenitore sempre più aperto dei diritti degli omosessuali fino alla dichiarazione solenne di un mese fa nel discorso inaugurale del suo secondo mandato alla Casa Bianca: «Il nostro viaggio non potrà dirsi completato fino a quando i nostri fratelli e le nostre sorelle gay non verranno trattati come chiunque altro davanti alla legge». La mossa di Obama davanti alla Corte è, quindi, un atto coerente. Ma è anche un atto clamoroso perché il suo impatto è potenzialmente rivoluzionario: fin qui quella per il riconoscimento delle unioni gay è stata una battaglia combattuta Stato per Stato e concepita come il tentativo di legalizzare un’eccezione. L’eventuale abolizione del Marriage Act del 1996, invece, farebbe venir meno il motivo — la definizione del matrimonio come unione tra persone di sesso diverso — che oggi costringe a cercare un regime speciale per i gay: qualcosa di simile alla svolta in atto in Francia dopo il voto dell’Assemblea Nazionale della settimana scorsa. L’esito del confronto davanti alla Corte suprema, comunque, non è scontato. Dal punto di vista procedurale non dovrebbero esserci dubbi visto che le parti in giudizio sostengono, di fatto, la stessa tesi: anziché chiedere alla Windsor di pagare la tassa immobiliare «maggiorata» in base al Marriage Act, il governo sosterrà, come l a c o n t r o p a r t e , l’inapplicabilità di quella legge perché incostituzionale. Ma non è così semplice. Poiché da tempo Obama aveva dato disposizione di non difendere più la legge sui matrimoni davanti ai tribunali, in questo ruolo difensivo sono subentrati i deputati repubblicani che si sono costituiti davanti alla Corte come una rappresentanza legale «bipartisan » del Congresso. Insomma, la battaglia legale ci sarà e il suo esito non è scontato, visto il peso che i conservatori continuano ad avere nella magistratura suprema. Il presidente ha, comunque, scelto di procedere spedito, convinto di interpretare in questo il mutamento di stato d’animo dell’opinione pubblica: i matrimoni gay, già legalizzati in 11 nazioni europee, sono ormai riconosciuti anche da nove Stati dell’Unione, oltre che dalla città di Washington. Il 6 novembre scorso la legalizzazione è passata in tutti gli Stati nei quali si è tenuto un referendum (Maryland, Washington e Maine), mentre il Minnesota ha respinto l’emendamento costituzionale che li avrebbe messi al bando.

(Corriere della Sera. 25 Feb 2013)

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