Nei primi mesi della pandemia le carceri italiane hanno contato una popolazione carceraria di oltre 61.200 tra detenuti e detenute a fronte di una capienza ufficiale di 50.931, registrando, così, un tasso di affollamento di circa il 130% che ha determinato un’impossibilità materiale del rispetto delle vigenti norme governative di sicurezza sanitaria: distanziamento e isolamento in caso di contagio.

A partire dallo scorso marzo i detenuti e le detenute sono stati costretti a vivere in uno stato ulteriore di isolamento che ha inasprito ancor più quello di per sè già prodotto dalla carcerazione. Preoccupazione, detenzione fisica e solitudine emotiva hanno reso la pena ancor più gravosa e afflittiva di quella già ordinariamente prevista e sofferta.

Stando agli ultimi dati forniti dall’Amministrazione Penitenziaria, al 16 Gennaio 2021, si aggiungono alla conta della popolazione carceraria risultata positiva al contagio da Sars-Cov 2 altri 109 tra detenuti/e. Dall’inizio del 2021 si è registrato un totale di positivi di 718 detenuti/e e di 701 operatori/trici penitenziari, mettendoci così di fronte una necessità, dapprima umana e poi materiale, di inserire la popolazione carceraria tra le soggettività più a rischio contagio e, quindi, prioritaria all’interno del piano vaccinale.

È Aldo Morrone, infettivologo e direttore dell’istituto San Gallicano, nel suo articolo sulla rivista Antigone, Have prisons learnt from Covid-19? How the world has reacted to the pandemic behind bars, a far emergere che “tra i gruppi sociali maggiormente a rischio, i detenuti occupano una posizione di primo piano.”

Celle troppo piccole, sovraffolate e poco ventilate, la miseria del servizio sanitario e il flusso continuo non solo di detenuti/e in entrata e in uscita, ma anche di tutti i lavoratori e lavoratrici (polizia penitenziaria, personale di sicurezza..) costituiscono, per Morrone, i fattori strutturali che rendono le carceri dei veri epicentri di contagio non solo per la comunità carceraria, ma anche per la società che vive fuori le mura penitenziarie. Rendere prioritaria la vaccinazione della comunità carceraria è ”parte integrante della risposta della sanità pubblica al Covid”.

Riconoscere la priorità di accesso al vaccino della popolazione carceraria nel dibattito pubblico, si scontra con il sentire comune che percepisce il detenuto e la detenuta solo nei termini di condannato/a ad una pena “che si è andato/a a cercare” e che deve scontare attraverso la privazione della propria libertà personale nella maniera più deumanizzante possibile. Perchè, quindi, garantire loro uno spazio di sicurezza sanitaria e un diritto alla salute soprattutto in un momento storico di emergenza sanitaria globale?

Durante la prima ondata pandemica, sono i detenuti e le detenute a rompere il silenzio della crisi sanitaria all’interno delle carceri. Decine di proteste e rivolte esplodono contemporaneamente negli istituti detentivi presenti su tutto il territorio nazionale: sovraffollamento, scarso igiene e la ripresa delle visite con i parenti sono i punti rivendicati a gran voce. La rabbia della popolazione carceraria segue per giorni, è rivendicato un rispetto per la persona umana che il più delle volte i media e con essi il sentire comune li depriva, ulteriormente.

Vaccinare la popolazione carceraria significherebbe porre parzialmente fine a un clima di paura e preoccupazione per chi vive gli spazi della detenzione e si è visto privato/a di ogni contatto in prima persona con le proprie famigle e con i propri affetti che, in una condizione detentiva, sono le uniche libertà di cui gli è permesso godere. Inoltre, darebbe la possibilità di riprendere tutte quelle attività scolastiche, sportive, lavorative e culturali che migliorerebbero la qualità della vita quotidiana del detenuto/a, perchè una pena costituzionalmente e moralmente orientata non dovrebbe permettere che la vita non varchi le mura penitenziarie.

Ad oggi i detenuti presenti sono, secondo l’ultimo dato disponibile, 53.364, ancora troppi rispetto alla capienza ufficiale, ancor di più rispetto a quella effettiva e in numero grandemente superiore rispetto alle esigenze sanitarie imposte dalla presente situazione pandemica. Un sovraffollamento carcerario che inevitabilmente culmina in quello che può essere considerato il simbolo della condizione detentiva ovvero la cella 55 del carcere di Poggioreale di Napoli. Uno spazio di 20 mq e una finestra in cui sono reclusi 14 detenuti e dove mancano le condizioni materiali di rispetto delle norme anticontagio.

Guardando alle “celle 55” presenti in tutti gli istituti penitenziari e alla cronica condizione di sovraffollamento che si registra dal 1990 a oggi, sarebbe possibile soffermarsi a riflettere su come una condizione straordinaria di emergenza sanitaria come il Covid-19 abbia potuto mettere in discussione non solo l’incarcerazione di massa come unico strumento e misura di reinserimento sociale ma, soprattutto, individuare delle alternative agli attuali spazi della detenzione. Se fuori si chiede di essere distanziati di almeno un metro, che reazione si può ottenere da persone stipate in celle di qualche metro quadro? Non si rischia così di subordinare il diritto alla salute, garantito costituzionalmente a ogni essere umano, a un principio meritocratico? Non si rischia di considerare detenuti e detenute non umani?

di Emanuela  Rescigno