BANGKOK – La mappa è chiara e conclamata, ed è formata da 23 Paesi fornitori e destinatari del traffico illegale d’avorio. Otto in particolare sono i «cattivi», identificati quali principali protagonisti nel contrabbando: Kenia, Uganda e Tanzania quali Paesi d’origine, Malaysia, Filippine e Vietnam quelli di transito, Cina e Thailandia i destinatari. Più eventualmente Hong Kong, altro importante intermediario. La Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate d’estinzione (Cites) – il cui vertice si è chiuso due settimane fa a Bangkok – chiede a questi ultimi piani d’azione per frenare il traffico sanguinario. Misure che fanno ben sperare alcuni, e deludono altri. Per varie organizzazioni non governative, Cites ha fallito nel proteggere l’elefante.
DIVIETO NON UNIVERSALE – Il consenso sull’allarme-elefante e sui livelli record di bracconaggio era unanime tra gli oltre 170 Paesi presenti alla conferenza. «È la prima volta nella storia del Cites che tutti sono d’accordo sul fatto che è in corso un olocausto, sembrava di essere a una convention di conservazionisti e non solo di commercio», dice Andrea Crosta, uno dei fondatori dell’Elephant Advocacy League. «Ma la discussione sul meccanismo che regola la vendita dell’avorio è solo stata rimandata: gli elefanti sono a forte rischio perché nel momento in cui si immette nuovo avorio legalmente sui mercati, questo si sovrappone a quello illegale».
COMMERCIO – Attualmente le vendite internazionali d’avorio sono infatti chiuse, ma la futura riapertura al mercato degli stock accumulati dai vari Paesi è più che una possibilità. «Il messaggio è che il commercio avverrà ancora», conferma Mary Rice, direttore esecutivo dell’Environmental Investigation Agency. «Ogni anno dal 2000 la Cina è stata identificata come il principale mercato per il commercio illegale d’avorio, ma non c’è mai stata alcuna sanzione». In Cina il 90% dell’avorio viene da fonti illegali, secondo le stime di Eia. «L’unica soluzione è bandire ogni tipo di commercio dell’avorio, anche quello sui mercati interni», sostiene Soraida Salwala, una delle figure simbolo della lotta per proteggere gli elefanti in Thailandia, fondatrice del primo ospedale al mondo per pachidermi. È una posizione condivisa dalla quasi totalità delle organizzazioni non governative. La Thailandia, Paese ospite della conferenza, è uno di quelli in cui il commercio interno dell’avorio è perfettamente legale, e consente un grande margine per il mercato nero del contrabbando internazionale. Il governo di Bangkok ha dichiarato la volontà politica di mettere mano alla situazione, senza tuttavia voler rinunciare al mercato interno.
RISORSE – Oltre che la volontà politica, il problema – perché i piani d’azione passino dai documenti della Convenzione al territorio – sono le risorse. I Paesi africani in cui sono presenti popolazioni d’elefanti si sono riuniti nel 2010 nell’African Elephant Action Plan per identificare obiettivi e strategie e fermare la strage. Il Fondo collegato può contare attualmente su soli 700 mila dollari. «Gli elefanti rappresentano un’entrata economica prioritaria per molti Paesi africani», ha detto Patrick Omondi, esperto della delegazione del Kenia, Paese in prima linea contro la vendita dell’avorio, ma nello stesso tempo porto di partenza-chiave di quello illegale. «Alcune popolazioni di elefanti africani stanno andando verso l’estinzione, ma se non riusciamo a frenare la domanda, questa guerra non può essere vinta». Quando la Convenzione fu firmata, 40 anni fa esatti, il principale mercato per l’avorio era l’occidente: oggi – pur senza dimenticare i compratori europei di avorio (magari in veste di turisti nei Paesi asiatici sopra-menzionati) – il consumatore europeo è enormemente più consapevole di quello asiatico dell’origine sanguinaria di gioielli e decorazioni sacre in oro bianco.
SCADENZE – Le misure per la riduzione della domanda sono alcune tra le più significative richieste Cites ai principali Paesi destinatari, una novità da molti ritenuta preziosa. Tra gli altri impegni richiesti agli otto Paesi, quelli atti a migliorare i controlli, incluso l’obbligo di fornire rapporti annuali sugli stock d’avorio e quello di registrare e condividere campioni di Dna nei sequestri superiori ai 500 chili. La scadenza ultima è giugno 2014: se fra meno di un anno e mezzo i Paesi non avranno dimostrato passi concreti nella lotta al traffico illegale, Cites potrebbe decidere misure punitive nei loro confronti.
BRACCONAGGIO E MAMMUT – Intanto bracconaggio continua ogni giorno a fare morti, con i mezzi sempre più sofisticati di una criminalità organizzata legata anche al terrorismo internazionale. Nonostante gli sforzi – o a causa anche delle debolezze – di Cites, lo scenario al momento non promette davvero nulla di buono. Con l’aumento delle temperature nelle zone artiche e lo scioglimento del permafrost (lo strato di suolo perennemente gelato delle alte latitudini) affiorano i resti di mammut rimasti congelati per migliaia di anni. Infatti si stima che l’avorio di mammut copra già oggi il 30% del mercato cinese.

di Carola Traverso Saibante (corriere.it)

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