FOGGIA. Un cantastorie del nostro tempo, che porta in scena il suo teatro fatto di parole e di musica. Di impegno civile e sociale. Perché parlare di mafia, della persecuzione degli ebrei, della violenza sulle donne o dei drammi dei nostri giorni non solo serve a «responsabilizzare gli spettatori su quello che succede nel mondo», ma anche a «svegliare il pubblico intorpidito sulle sue conoscenze». E Marcello Colopi si sente proprio come un vecchio cantastorie. Perché osserva, elabora e poi racconta. Aiutato anche dal suo lavoro di sociologo che svolge presso un consorzio di cooperative sociali di Napoli. «Un modo per integrare la mia attività teatrale, perché ascolto le persone, le loro storie e molte di queste offrono spunti di vita vera da portare in scena».
MUSICA PER SORRIDERE. Per questo, nel 2004, in collaborazione con Antonio Piacentino, dà vita all’associazione “Musica per Sorridere”. L’obiettivo è quello di «promuovere il teatro sociale, civile e la musica fra i ragazzi». E così, se il suo collega si dedica in modo particolare agli adolescenti con l’idea di tirare fuori i loro talenti e la loro creatività attraverso il mondo musicale, Marcello coltiva la passione per il palcoscenico. «Dopo aver fatto l’autore di testi teatrali per gli altri, – racconta – ho pensato di raccontarli io stesso, di metterli in scena accompagnando la tecnica teatrale, la forza del testo, con la musica». Senza perdere mai di vista, però, l’impegno civile e sociale che caratterizza il suo modo di fare teatro. Un impegno che ha radici lontane. «Nasce da un’antichissima tradizione presente sin dai tempi del medioevo, quando i vecchi cantastorie andavano in giro per le città raccontando volutamente storie realmente accadute per scuotere le persone».
DALLA SHOAH ALLA VIOLENZA. E le storie narrate sul palco da Marcello Colopi non sono mai banali. Sono come degli schiaffi gentili che si abbattono sul volto degli spettatori per scuoterli, per risvegliarli. E gli spettacoli che ha scritto in questi anni sono un chiaro esempio dell’inclinazione artistica prodotta e portata in giro per l’Italia. “Sei Milioni di persone” parla della Shoah, dello sterminio degli ebrei nei campi di concentramento da parte dei nazisti. “Lezioni di storia impossibile” affronta il delicato tema della violenza sulle donne. “Diciannove secondi” ricorda il crollo del palazzo di Viale Giotto, a Foggia, che nel giro di 19 secondi, nella notte dell’11 novembre 1999, si sbriciolò su se stesso provocando la morte di 67 persone.
UNA CROCE D’OLIO. Il legame verso la sua terra d’origine, la Puglia, non riguarda solo la triste vicenda di Viale Giotto. Il suo ultimo lavoro è ispirato all’eccidio i tre ragazzi, ad un fatto di sangue che ha avuto come teatro naturale Cerignola, la città in cui è nato e dove torna spesso. “Una croce d’olio” è un testo che parla di mafia. Che riesuma una vecchia storia che la maggior parte dei cittadini hanno preferito affossare, dimenticare. Marcello, invece, quella storia non l’ha mai dimenticata e scriverla «mi è servito a riconciliarmi con il mio territorio». Ed il titolo del testo non è per niente casuale: «La croce con l’olio viene segnata per benedire il pane o la pasta, ma ha anche un senso cristiano. Perché il segno di croce con l’olio viene fatto nei sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’unzione degli infermi. Come se fosse un segno di riconciliazione». La storia che Marcello ha deciso di restituire alle memorie distratte è quella di «Matteo Di Fonzo, Vito Cinquepalmi e Domenico Borrelli, tre ragazzi uccisi dalla criminalità organizzata perché convinta che uno dei tre giovani fosse a conoscenza di chi aveva commesso un omicidio di mafia il giorno prima. Sono stati uccisi e gettati in un pozzo della città. Tre ragazzi completamente estranei alle organizzazioni criminali, tre vite spezzate senza alcuna colpa, tre storie in cui è subentrato anche il pregiudizio degli abitanti, ma che alla fine hanno ottenuto il riconoscimento di vittime di mafia». Uno dei ragazzi Marcello lo conosceva bene perché a quei tempi faceva l’educatore in una parrocchia. «La sua morte mi ha segnato profondamente. Erano vent’anni che volevo scrivere questo testo e finalmente ci sono riuscito».

 di Emiliano Moccia

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