ROMA.Altro che «vengo a vivere alla Coop. A casa le donne ci starebbero volentieri. Con figli e mariti. Eppure sanno di essere senza alternativa, perché in qualche modo la famiglia si deve mantenere, e allora meglio essere sfruttate che rimanere a casa senza lavoro», è il teorema accusatorio che deflagra a Casalecchio di Reno, quartier generale Coop, nella giornata di domenica e ad assume i connotati di una lettera-denuncia di alcune dipendenti appartenenti all’Usb, la sigla confederale da sempre percepita come la più combattiva, la meno incline al compromesso, alla diplomazia nelle relazioni sindacali. Di certo minoritaria nella rappresentanza, ma pur sempre interprete di malessere e risentimento verso un’azienda invece ritenuta estremamente attenta ai diritti dei lavoratori e alle loro condizioni professionali.
LO SPOT – La lettera poi prende in prestito probabilmente uno degli spot pubblicitari più azzeccati degli ultimi anni. Annuncio che esprime – nelle intenzioni dei guru del marketing – l’identificazione tra marchio e consumatore. Che presuppone la simbiosi tra i valori di un’azienda della grande distribuzione italiana e le scelte d’acquisto di chi decide di fare la spesa in uno dei migliaia punti vendita Coop presenti in Italia. Spot che si appella al tradizionale familismo tutto italiano, coinvolge gli aspetti emotivamente più profondi nelle scelte di consumo, quelle che orientano le motivazioni di acquisto con la crisi fortissima che riduce le possibilità di spesa delle famiglie sì, che ora però tendono a cercare l’identificazione valoriale dei prodotti selezionati per noi sugli scaffali.
IL TESTIMONIAL – Che poi il testimonial sia Luciana Littizzetto assume una maggiore forza simbolica: una donna conosciuta al grande pubblico, intelligente e nazionalpopolare, la perfetta incarnazione della donna italiana lontana dal modello Olgettina, icona di riferimento di una sinistra auto-ironica e mai radical-chic. Per un brand organico da sempre a quell’area culturale/sociale/politica di riferimento, il quartier generale a Casalecchio di Reno nel bolognese, la straordinaria vitalità dell’associazionismo cooperativo emiliano che ne ha fatto la best-practice della gdo su scala italiana, era quindi il testimonial perfetto.
LA LETTERA – Ecco perché la denuncia delle lavoratrici Coop determina un cortocircuito a questo modello di riferimento, perché la condizione che raccontano le cassiere non è proprio rosea come invece viene descritta nella pubblicità. Anzi. «A comandare sono tutti uomini e non vige certo lo spirito cooperativo. Ti facciamo un esempio – scrivono alla Littizzetto – e per andare in bagno bisogna chiedere il permesso e siccome il personale è sempre poco possiamo anche aspettare ore prima di poter andare. Viviamo in condizioni di quotidiana ricattabilità, sempre con la paura di perdere il posto e perciò sempre in condizioni di dover accettare tutte le decisioni che continuamente vengono prese sulla nostra pelle».
LA REPLICA – A stretto giro è arrivata la replica dell’azienda bolognese. «Pur comprendendo le difficoltà di chi si trova in una condizione di lavoro precario – ha comunicato in una nota il gruppo di Casalecchio – riteniamo assolutamente infondate le informazioni contenute nella lettera aperta sia per quanto attiene i salari corrisposti, non certo compatibili con gli standard retributivi di un lavoratore a tempo pieno, sia anche per le modalità organizzative del lavoro». E ha aggiunto «che la strategia occupazionale di Coop, anche in un periodo di profonda crisi e di calo dei consumi, mira a perseguire una politica di stabilizzazione del personale».
di Fabio Savelli per Corriere.it

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