di Antonio Polito*

Quando si parla di giovani la prima cosa che si dovrebbe chiarire è che cos’è un giovane. In Italia si dà del giovane a tutti, fino ai quarant’anni e oltre. Giovane è sinonimo di tizio in attesa di qualcosa; che so, un lavoro, il successo, una casa tutta sua, la sostituzione (o la morte) dell’anziano che lo precede in carriera. Aspettando aspettando, i giovani invecchiano, ma non è detto che crescano. Un esempio? In Italia si era formata una decina di anni fa una coraggiosa e meritoria organizzazione dei Giovani Dirigenti della Pubblica Amministrazione. Volevano cambiare il mondo, cominciando con lo svecchiare il loro. Ebbene, dopo dieci anni quei giovani sono diventati non più giovani, con il blocco del turn-over nuovi giovani dirigenti non ne sono arrivati, e così la ex Associazione Giovani Dirigenti della Pubblica Amministrazione si è trasformata ufficialmente in Associazione Dirigenti della Pubblica Amministrazione, e addio Giovani. Volete un altro esempio: il gruppo di VeDrò, messo insieme dal sempre giovane Enrico Letta. Bene, quando nacque associava per statuto solo trentenni di belle speranze, ora è stato modificato lo statuto perché sono tutti diventati quarantenni.
ATTENZIONE ALLA RETORICA – Lo dico per mettere in guardia dalla retorica sui giovani che tanto abbonda in Italia. Si sostiene per esempio che il problema principale dei nostri giovani è la disoccupazione. È vero, ma non del tutto vero. Nel senso che in tutti gli altri paesi europei, con l’eccezione della Germania, ci sono molti più giovani disoccupati che da noi. Infatti la disoccupazione si calcola in percentuale sul numero dei giovani ”attivi”, che hanno cioè un lavoro o lo stanno cercando, e vista così sembra altissima: uno su tre. Ma rapportata all’intera platea dei giovani, anche a coloro che non hanno un lavoro né lo cercano, i disoccupati sono appena 1 su 14, cioè il 7,1%. Dunque l’anomalia dell’Italia – come ha efficacemente sintetizzato Luca Ricolfi, lo studioso a cui si devono questi calcoli rivelatori – “non è che i suoi giovani non trovano lavoro, ma che non lo cercano”. E infatti il vero primato italiano è nel numero dei giovani totalmente “inattivi”, che cioè non lavorano, non studiano, né stanno apprendendo un mestiere (i famosi Neet: Not in Education, Employment or Training).
RIPARTIAMO DAL WELFARE – Vuol dire che le cose stanno meglio di quanto ci dicono i media? No, vuol dire che le cose stanno molto peggio. E vuol dire che tutte le risorse pubbliche che abbiamo andrebbero concentrate e indirizzate in un sistema di Welfare disegnato per spingere i nostri giovani al lavoro: prepararli, formarli, accompagnarli nei periodi di disoccupazione per portarli il più presto possibile a una nuova occupazione. Invece di pagare la gente perché non lavori (cassa integrazione), pagare la gente perché lavori (sussidi universali e formazione permanente). Vuol dire mettere fine all’illusione che la laurea dia diritto a un lavoro, soprattutto quando è una laurea che vale poco in un ateneo che vale poco. Significa dire con onestà ai nostri figli che non potranno avere la vita facile che hanno avuto i padri, e che dovranno sudarsela se vogliono far meglio di loro. E subito dopo dispiegare tutta la potenza dello Stato sociale per aiutarli a superare lo choc e a cominciare finalmente la loro vita.
*editorialista de “Il Corriere della Sera”
articolo estratto da Comunicare il Sociale/Aprile 2012

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