Però lui non voleva che la portassero via, la sua sedia. Se gliela toglievi ripartiva con la sua lagna. Un medico l’ha visto e ha detto “signor Giovanni, di nuovo qui?”. Un infermiere l’ha visto e ha detto “signor Giovanni, di nuovo qui?”. Il signor Giovanni fa il giro degli ospedali, parte coi suoi “oh, mammina mammina” e pretende la sua sedia a rotelle.
Ora sono a casa, lentamente sto riprendendo a muovermi. Qualche giorno e sarà tutto ok. Appena sono entrato, con la mia compagna che mi sorreggeva, il tepore dei riscaldamenti accesi, il lettone morbido e il piatto in tavola, ho pensato al signor Giovanni. Ho capito in pochi secondi ciò che in due giorni non avevo capito. La sua sedia a rotelle. Ho capito perché non può farne a meno. Ho capito che nessuno, per l’amor di dio, dovrebbe mai farne a meno. Io sono qui, lui è ancora lì, o in un altro ospedale. Non ho bisogno di chiedere per saperlo. E sarà lì anche domani, per chiedere la sua sedia. Perché è l’unica cosa che, ragionevolmente, spera di riuscire a ottenere. L’unico sostegno. Com’è che è finita così? E quand’è cominciata?
* editorialista di Comunicare il Sociale
Quand’è che abbiamo mandato al diavolo i nostri vecchi?
Ho fatto la scelta coraggiosa di entrare in un ospedale pubblico per sottopormi a un intervento chirurgico. Risultato: due notti in stanza con un vecchio lamentoso e catarroso che continuava a ripetere “oh, mammina mammina. Oh, mammina mammina”. E che palle, oh. Come se non bastasse, il vecchio non la smetteva di chiedere una sedia a rotelle perché diceva che non poteva camminare. Tutte balle. Quando gliel’hanno portata è sceso dal letto, ha messo un piede davanti all’altro coprendo tutti i metri che servivano, e ci si è seduto sopra. E io, che sul serio non potevo camminare, ero lì steso nel letto senza emettere un fiato.