«Il 17,4% di chi ha subito discriminazione nell’attuale/ultimo lavoro dipendente ha intrapreso una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di azione). La percentuale sale leggermente tra chi ha vissuto invece un evento di “clima ostile” in ambito lavorativo, riguardando una persona su quattro». Lo dice l’Istat, in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, proponendo alcuni risultati delle indagini finora condotte nell’ambito del progetto, tuttora in corso, svolto in collaborazione con l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), sul tema delle “Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ e le diversity policies attuate presso le imprese”.

«Più in generale – si legge – oltre il 68,2% afferma di aver evitato di tenersi per mano in pubblico con un partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato; tale evidenza mostra la netta percezione di vivere in un contesto sfavorevole; per lo stesso motivo il 52,7% ha evitato di esprimere il proprio orientamento sessuale. Relativamente agli ultimi tre anni ed escludendo episodi avvenuti in ambito lavorativo, il 3,1% delle persone in unione civile o già in unione che vivono abitualmente in Italia e si sono definite omosessuali o bisessuali, ha affermato di aver subito aggressioni a causa dell’orientamento sessuale; per lo stesso motivo il 3,9% ha ricevuto minacce. Le offese legate all’orientamento sessuale ricevute via web sono invece segnalate dal 13% degli intervistati. Tali dati, si ricorda, non possono essere considerati rappresentativi dell’intera popolazione LGBT+, ma di una piccola parte che ha voluto unirsi civilmente e che si caratterizza per un’elevata visibilità rispetto al proprio orientamento sessuale».

Sempre secondo l’Istat, tra le imprese con almeno 50 dipendenti dell’Industria e dei Servizi, la disabilità (15,9%) e il genere (12,7%) sono gli ambiti prevalenti, non obbligatori per legge, di applicazione del diversity management (DM); seguono le misure legate alle diversità per età (10,4%), cittadinanza, nazionalità e/o etnia (9,7%) e alle convinzioni religiose (9%).

Le imprese di grandi dimensioni sono più attive; infatti, per tutti gli ambiti indicati la quota è più elevata, arrivando a riguardare, per le differenze di genere e disabilità, un’impresa su quattro fra quelle con almeno 500 dipendenti. Considerando sempre le iniziative che vanno oltre gli obblighi di legge, nel 2019 solo il 5,1% delle imprese (pari a oltre 1.000 imprese) ha adottato almeno una misura per favorire l’inclusione LGBT+. La dimensione d’impresa si conferma un fattore discriminante per cui si passa dal 4,4% delle imprese di 50-499 dipendenti al 14,6% di quelle di dimensioni maggiori. Nel complesso, solo il 3,5% delle imprese ha adottato misure non obbligatorie per legge per gestire e valorizzare le diversità tra i lavoratori legate a tutti i fattori considerati ossia il genere, l’età, la cittadinanza, la nazionalità e/o l’etnia, le convinzioni religiose, la disabilità, l’orientamento sessuale o identità di genere (il 10,9% delle imprese con almeno 500 dipendenti).

 

Fonte: Redattore Sociale www.redattoresociale.it  

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