ROMA. Se una multinazionale tedesca, ricordata da tutti per quei frigoriferi vintage, colorati e un po’ bombati, per quelle lavastoviglie efficientissime che tanto piacciono agli acquirenti di tutto il mondo, cominciasse a pubblicizzare sistemi per la tutela di sicurezza nelle carceri di Paesi che non riconoscono i diritti fondamentali ai propri cittadini, che immagine ne guadagnerebbe?
IL CASO. È quanto è accaduto nei giorni scorsi alla multinazionale Bosch, industria leader nella produzione di elettrodomestici, che stando agli slogan pubblicitari, migliora la vita di tutti i giorni, ma nonostante le sue buone finalità, è finita nel mirino delle organizzazioni umanitarie e di tutela dei diritti civili per aver proposto in Cina pubblicità dei propri sistemi di sicurezza messi a disposizione delle carceri. I video incriminati, che hanno suscitato l’indignazione e fatto scattare la denuncia delle organizzazioni internazionali, sono stati ritirati dal web. Potrebbe trattarsi di una mera questione di cattivo gusto, come potrebbe osservare qualcuno, lo sfruttamento di immagini di detenuti controllati strettamente nelle carceri cinesi nei video proposti nella Repubblica Popolare Cinese; se non fosse che la legislazione di quest’ultima riconosce come mezzo per  perpetuare la politica del terrore  e per fornire forza lavoro senza alcun costo per lo stato la reclusione nei Laogai, volgarmente detti campi di concentramento, istituiti nel Paese dal 1950.
LA REPLICA. La risposta dei portavoce di Bosch alle accuse ricevute arriva in questi termini: «Non abbiamo violato le regole per le vendite all´estero»; aggiungono poi, che l´azienda ha contribuito in modo positivo allo sviluppo dell´economia e della società cinesi e che le merci sono state vendute agli imprenditori e non alle carceri direttamente. Ma il problema di fondo resta: può davvero l’industria di un Paese firmatario della Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino di Nizza farsi pubblicità per carceri dove vige un regime praticamente privo di garanzie e diritti?

di Claudia Di Perna

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