ROMA – Sulla proroga della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari all’1 aprile 2014 decisa dal Consiglio dei ministri, l’Unione delle Camere Penali chiede con forza che “la politica e le Istituzioni non rimangano ancora inerti davanti a quella che e’ stata definita una delle ‘pagine piu’ impresentabili della nostra storia’, ma diano finalmente una risposta chiara e seria sui tempi di attuazione della legge”. In una nota i penalisti sottolineano come il timore che la proroga di un anno “non produca nulla e’ fondato se solo si pensa a questo anno inutilmente trascorso: cio’ non e’ piu’ tollerabile. Le istituzioni, sia a livello centrale che regionale, non possono nascondersi dietro al rinvio, devono indicare con quali mezzi e in quali tempi la legge sara’ attuata”.
Le istituzioni, si fa notare, “non hanno saputo gestire il percorso di chiusura degli Opg e le risorse economiche stanziate”. Con il risultato che “resteranno quindi aperti, e continueranno a ricevere internati, cinque luoghi definiti ‘di tortura’ dal Consiglio d’Europa, di ‘autentico orrore indegno di un paese appena civile’ dal Presidente Napolitano ed infine qualificati dalla commissione Marino come luoghi nei quali e’ calpestata ogni forma di dignita’ umana”. Proprio per fronteggiare quell’emergenza, si ricorda, era stata emanata la L.9/2012 che, “pur presentando limiti e criticita’, aveva avuto il pregio di non voler piu’ conservare luoghi di segregazione dove una umanita’ dolente era internata senza limiti di tempo e, spesso, senza la predisposizione di un reale progetto di cura”. E oggi si dice che la proroga e’ “necessaria per fronteggiare una nuova emergenza: quella delle inevitabili conseguenze, sulla sicurezza sociale e sulla tutela della salute, che la mancanza di luoghi di cura alternativi produrrebbe”.
Eppure i fondi esistevano, conclude l’Ucpi, e dunque anche le possibilita’ di affrontare i problemi organizzativi. Ma nulla e’ stato fatto, se non applicare l’italico vizio del rinvio, e la situazione e’ destinata a rimanere invariata se non si prende atto che il problema deve essere risolto senza ricorrere al circuito carcerario”.

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