BIRMANIA – Un’intera città distrutta, la gente costretta a passare la notte nei campi per paura di essere uccisa. I musulmani che vivono a Okkan, 80 km a nord di Yangoon in Birmania, la mattina del primo maggio sono tornati nelle loro case per trovare solo macerie. La sera prima centinaia di buddisti avevano invaso la zona gettando nel terrore la popolazione.
“Siamo scappati nei campi senza portare nulla con noi – ha raccontato piangendo all’Associated Press Hla Myint, 47 anni, padre di otto figli -, ora siamo senza casa”. Secondo la polizia nell’assalto una persona è morta e sono state distrutte 157 tra case e negozi, oltre a due moschee ad Okkan e altri tre villaggi sono stati rasi al suolo.
Dietro l’ennesimo assalto c’è il gruppo 969 che vorrebbe imporre alla minoranza musulmana una sorta di apartheid: i buddisti dovrebbero evitare i negozi gestiti dai musulmani, mettere al bando i matrimoni misti e né vendere né affittare terra ai Rohingya. Una filosofia che sta prendendo sempre più piede negli ultimi mesi e che alimenta la violenza. In molte città si notano un po’ ovunque gli adesivi con sopra l’emblema del 969 (i numeri elencano le virtù di Budda, i suoi insegnamenti e le comunità di monaci). Anche nella capitale taxi, negozi e autobus esibiscono il simbolo del gruppo islamofobico.
L’ultimo episodio di violenza risale al 30 marzo quando c’erano stati dieci giorni di scontri nella città di Meikthila, nel nord del Paese. Come avevamo raccontato in questo post a pagare con la vita erano stati, anche quella volta, i Rohingya, la minoranza musulmana mal tollerata dalla maggioranza buddista. Finora è fallita la strategia di pace del presidente Thein Sein, un riformista che ha provato a frenare il crescere degli estremismi religiosi.
Gli abitanti di Okkan avevano fiutato il pericolo e, dopo gli episodi di fine marzo, avevano addirittura organizzato delle ronde per proteggere la città. Le autorità, però, gli avevano detto di non preoccuparsi e così, dopo qualche settimana, avevano desistito.
“E’ successo tutto all’improvviso – ha raccontato ancora all’Associated Press Hla Myint -, la folla è arrivata urlando: non difendetevi, vogliamo solo distruggere la moschea, non vi faremo del male e non distruggeremo le vostre case. Invece l’hanno fatto”.
Cosa accadrà ora ai senza tetto? Gli scontri religiosi nello Stato di Rakhine al confine con il Bangladesh hanno già causato quasi trecento morti e più di 130mila profughi. I Rohingya non sanno cosa fare, alcuni si fanno ospitare da chi la casa ce l’ha ancora in piedi ma la situazione è insostenibile.
Hla Aung, 39 anni, ha perso la sua casa e accusa la polzia: “Non hanno fatto nulla per proteggerci, per questo è molto difficile fidarci di loro”. Aung Myint, 46 anni, è buddista ma non approva la violenza. Ha assistito all’attacco senza muovere un dito perché, dice, chi l’ha fatto è stato picchiato: “Non abbiamo osato aiutarli perché eravamo preoccupati per la nostra sicurezza”.
I gruppi per i diritti umani rimproverano al governo di non essere riuscito a fermare l’estremismo buddista. Ormai la violenza sta dilagando e si avvicina sempre più alla capitale Yangoon. La scorsa settimana Human Rights Watch ha accusato autorità dello Stato di Rakhine, compresi i monaci buddisti e le forze di sicurezza, di fomentare una campagna organizzata per la pulizia etnica della regione dai Rohingya.
I musulmani rappresentano il 4% dei 60 milioni di cittadini birmani, un terzo del Paese è composto da minoranze in cerca di maggior autonomia.

di Monica Ricci Sargentini (corriere.it)

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