ROMA – Siamo in Arabia Saudita, unico paese al mondo in cui le donne non possono guidare. Forse perché mettersi alla guida potrebbe essere segno di emancipazione o perché in quei paesi le donne non godono di alcun rispetto. E’ proprio da qui che Amnesty International lancia il suo appello alle autorità saudite in vista della giornata di protesta in programma domani, 26 ottobre. Una lunga battaglia contro il divieto emesso nel  1990 che è costato la prigione a chi ha tentato di infrangerlo.
VITE NEGATE – Lo scorso 23 ottobre il ministro dell’interno ha dichiarato che se la giornata di protesta fosse andata avanti, le autorità avrebbero risposto con la forza. «È incredibile che nel XXI secolo le autorità dell’Arabia Saudita continuino a negare il diritto delle donne a guidare legalmente un’automobile – commenta Philip Luther, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International-. Il divieto di guida è di per sé discriminatorio e avvilente nei confronti delle donne e dev’essere abolito immediatamente. È del tutto inaccettabile che le autorità impediscano alle attiviste di mobilitarsi contro il divieto. Invece di reprimere la protesta-conclude- dovrebbero rimuovere il divieto e garantire che mai più una donna verrà arrestata o punita solo per essere al posto di guida di un’automobile».
LA CAMPAGNA – E’ giunta l’ora di decretare la fine di questo divieto. Sono già in molti i video che spopolano sul web e che riprendono varie donne alla guida, in segno di protesta. Perché è inaccettabile, specialmente ai nostri tempi, che le donne debbano dipendere ancora dai propri uomini. Guidare l’auto sarebbe un passo avanti verso l’emancipazione: consentirebbe a molte di recarsi al lavoro, di andare all’università o, semplicemente, portare i propri figli a scuola. Azioni quotidiane e scontate che in Arabia Saudita sono negate. Troppe restrizioni, troppo poco rispetto e troppe vite negate. La legge, la prassi di certo non tutela queste donne anzi continuano a muoversi in una direzione opposta facendo si che spesso finiscano tra le braccia di uomini violenti e trattate, purtroppo, come “oggetti”.
 

di Sabrina Rufolo

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