Esistono ancora, sulla Terra, società primitive che non si sono, quasi mai per scelta, affacciate al mondo moderno. Ci sono luoghi, spesso remoti, dove popolazioni, quasi sempre poverissime, hanno mantenuto invariata nei secoli la loro struttura economica e sociale. Dove non è arrivata la mano “rivoluzionaria” dell’uomo occidentale, che gioca il ruolo di catalizzatore del tempo, la vita di tutti i giorni scorre ancora al ritmo del sole, seguendo le fasi lunari e aspettando la marea. E’ un esempio indiscutibile di interconnessione con l’ecosistema, di una vita realmente ecosostenibile, che mette le fondamenta nella granitica consapevolezza, tramandata nei secoli, che il rispetto della natura genera il guadagno dell’uomo.

Nell’arretrato Madagascar, la maggior parte della popolazione abita in piccoli villaggi fatti di ravenala (una pianta endemica), vive di pesca, di agricoltura e di allevamento. Tutt’uno con l’ambiente che le circonda, queste popolazioni hanno imparato e tramandato, generazione in generazione, una profonda conoscenza della natura, e di come poter trarre beneficio da essa, nelle forme più disparate e nei campi di applicazione più diversificati. La ricchezza delle popolazioni, come quella malgascia, risiede nella prosperità della natura e nella salubrità dell’ambiente che li circonda, beni essenziali, oggi in netta diminuzione nei Paesi del Primo mondo.

Intanto, decenni di evoluzione industriale hanno permesso ad una considerevole fetta dell’umanità di emanciparsi dal peso quotidiano di provvedere materialmente e in prima persona al proprio sostentamento. Il sistema sociale definito, forse ormai anacronisticamente, “occidentale”, che vive di interdipendenza economica e interconnessioni su scala globale, ha dato all’uomo moderno possibilità che popolazioni, evolutivamente lontane nei secoli, possono solo sognare, e desiderare. L’evoluzione umana legata al suo benessere, però, si è rivelata poco sostenibile per il pianeta e per l’ecosistema. Come batteri in un terreno di coltura, siamo tutti residenti di un unico pianeta, e legati, senza distinzioni di razza, di ceto e di provenienza, allo stesso destino, senza distinzioni di sorta. Con l’orologio climatico del mondo che si appresta alla mezzanotte, e senza la certezza che arrivi domani, si fa ancora fatica a prendere le uniche decisioni, se pur drastiche, che consentirebbero al genere umano di porre rimedio alla sua fine. Si fa fatica anche a fare un bilancio analitico del rapporto rischio/beneficio del vivere secondo gli standard occidentali, non conoscendo, nella maggior parte dei casi, alcuna alternativa. Non si arriva nemmeno ad immaginare che una vita realmente ecosostenibile, come quella di molte popolazioni, possa essere un’alternativa ugualmente appagante, che non comporti per forza una reale diminuzione della qualità della vita, soprattutto se si tengono in considerazione i traguardi che le tecnologie sostenibili hanno raggiunto. In ogni modo, una vita in cui, almeno, si potrebbe guardare con serenità al futuro. Intanto spuntano come funghi, in tutto il mondo, orologi climatici, per ricordare che mancano solo 7 anni al punto di non ritorno, meno di 2600 giorni alla catastrofe climatica. Rimane a disposizione un tempo esiguo per evitare l’aumento della temperatura media globale di 1,5 °C, una manciata di secondi nell’intera vita dell’uomo sulla terra. Davanti a queste evidenze, e consci della gravità delle possibili soluzioni al cambiamento climatico presentate dagli esperti e della difficoltà di applicarle come società, la sola idea di una decrescita felice senza limitazioni delle possibilità individuali sembra essere solo una chimera. Guardare alla serenità, e persino alla felicità, di quelle popolazioni primitive, che vivono in armonia con l’ecosistema, senza ulteriori grandi pretese, fa ben sperare in un’alternativa possibile, che si avvarrebbe, per di più, dei vantaggi di quello che di buono l’evoluzione tecnologica e culturale ha portato all’umanità.

di Valerio Orfeo

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