Il totale dei finanziamenti all’industria del fossile su scala globale ha superato, nel 2022, i 7000 miliardi di dollari. Una cifra record che rappresenta addirittura il 7,1% del prodotto interno lordo del Pianeta. Per fare un confronto, la spesa sanitaria e quella per l’educazione si attestano rispettivamente al 10,9% e al 4,3% del PIL globale. A fornire questi dati è il Fondo monetario internazionale (FMI), che sottolinea come il finanziamento ai combustibili fossili abbia registrato un’impennata senza precedenti, dopo i già consistenti aumenti degli ultimi anni. I sussidi ai combustibili fossili su scala globale ammontavano, nel 2020, a 362 miliardi di dollari, cifra che è raddoppiata nel 2021 (697 miliardi), e poi decuplicata appena l’anno seguente. Una tendenza di crescita che mal si sposa con le politiche di decarbonizzazione necessarie per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e rimanere sotto la soglia di 1,5°C di aumento delle temperature medie, secondo quanto stabilito dagli Accordi di Parigi e successivi. Secondo gli esperti mondiali di energia e clima, qualsiasi nuovo sviluppo di combustibili fossili dopo il 2021 mette a rischio la possibilità di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Le emissioni potenziali derivanti da combustibili fossili già in produzione o in costruzione, come pozzi già forati o in fase di perforazione o miniere già scavate, già conducono il Pianeta ben oltre i +2 ºC di aumento della temperatura globale. Infatti, il naturale iter degli investimenti, per l’estrazione e l’espansione dei giacimenti, è lo sviluppo di questi nel tempo, fino all’esaurimento completo della risorsa; solo in questo modo è possibile garantire il ritorno economico derivante dell’investimento iniziale. Così, una volta che una risorsa di petrolio, gas o carbone viene finanziata e sviluppata, o un pezzo di infrastruttura fossile, come ad esempio un gasdotto, viene costruita, c’è un forte incentivo a estrarla completamente o a farla funzionare fino alla fine della sua vita economica. Nuovi investimenti, quindi, rischiano di trasformarsi in decenni di nuove emissioni climalteranti oppure di svalutarsi completamente, a scapito degli stessi investitori. Siccome è improbabile che ciò avvenga, viste le dinamiche del mercato e l’ascendenza che questo ha sulle decisioni politiche, secondo molti attivisti, questa decisione potrebbe rappresentare il colpo di grazia per il clima del Pianeta. Nonostante le evidenti responsabilità, la quasi totalità di questi finanziatori si presenta come favorevole alla lotta climatica e impegnata nella salvaguardia nell’ambiente; la beffa oltre il danno. Tra i maggiori prestigiatori della crisi climatica, che con la mano destra firmano gli accordi internazionali di decarbonizzazione totale entro il 2050 e con la sinistra sovvenzionano pubblicamente l’inquinamento, è annoverabile lo Stato italiano che, in questo scenario, si attesta come il sesto più grande finanziatore di combustibili fossili al mondo, nonostante le indicazioni contrarie della UE e gli accordi di Glasgow sul clima. “Le strategie dell’Italia sono tra le più inadeguate tra quelle adottate fino a questo momento.”, ha dichiarato in un comunicato ReCommon, associazione che combatte contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori, “Come avevamo già denunciato a novembre 2021, l’iniziativa era lungi dall’essere perfetta, con una serie di scappatoie che avrebbero fatto gola al Sistema-Italia, che si basa sul triangolo tra finanza privata, industria fossile e finanza pubblica. Così è puntualmente avvenuto”. Infatti, SACE, ente assicuratore controllato dal ministero dell’Economia e primo finanziatore a livello europeo e sesto a livello globale per il sostegno pubblico alle fonti fossili, tra il 2016 e il 2021 ha emesso garanzie per più di 13,7 miliardi di euro verso l’industria del fossile. Le politiche di SACE e CDP, che dovrebbero rappresentare lo strumento operativo statale per la transizione energetica italiana, ci allontanano progressivamente dagli obiettivi delineati dall’UE di riduzione e abrogazione di tutti i sussidi ambientali dannosi. Una strategia chiara ed inequivocabile, in linea con il completo disinteresse alla questione climatica, suggellata dalla nomina da parte del Governo, a presidente del Cda di SACE, di Filippo Giansante, che da tre anni è anche consigliere e amministratore non esecutivo di Eni. Un conflitto di interessi che spezza ogni speranza di cambiamento delle politiche energetiche del Paese, incistate nelle miopi e, ormai, anacronistiche dinamiche del denaro e del potere. Non brillano per coerenza nemmeno gli altri Paesi del G20: “Fanning the Flames”, ovvero “alimentare le fiamme”, è il nome del report dell’International Institute for Sustainable Development (IISD) che racconta come nel solo 2022, i Paesi del G20 abbiano erogato finanziamenti pubblici alle fonti fossili per 1400 miliardi di dollari, cifra triplicata dal 2020 ad oggi. A questi incentivi diretti ai combustibili fossili vanno aggiunti gli sconti fiscali e le agevolazioni, che da soli contano più di 5700 miliardi di dollari l’anno. Tutto ciò mentre le compagnie del fossile hanno ottenuto guadagni record, per un totale di 4 trilioni di dollari, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022. In conclusione, il peso di 7000 miliardi di dollari che gravano sul piatto della bilancia climatica fanno pendere pericolosamente l’ago verso il baratro. Le azioni individuali, le rinunce quotidiane e le piccole scelte “green” di tutti i giorni difficilmente potranno compensare un tale investimento di morte, fatto, oltretutto, con i soldi dei cittadini, all’insaputa dei cittadini e ,soprattutto, a scapito dei cittadini. Così muore la lotta al cambiamento climatico.

di Valerio Orfeo

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