Libertà. Intervista al direttore dell’istituto penale per minorenni di Napoli: «Necessario intervenire anche sul degrado urbano, puntiamo alla bellezza»

Nisida è un’isola. Anche una vecchia canzone di Edoardo Bennato lo ricorda bene, lo sottolinea. Ma per i napoletani Nisida è soprattutto il luogo che ospita il carcere minorile. L’istituto penale per minorenni, per essere precisi. Gianluca Guida ne è il direttore. Con lui analizziamo il disagio giovanile, il recupero possibile, le prospettive per i tanti ragazzi che vogliono migliorarsi dopo aver sbagliato. E pagato.
Cosa si potrebbe fare per migliorare la giustizia minorile, affinché non sia non solo repressiva ma vada verso un reale recupero sociale?
Il nostro sistema di giustizia minorile è tra i più avanzati nel modo ed è un patrimonio giuridico e pedagogico da preservare. D’altronde la norma si pone in continuità con la Carta Costituzionale Italiana che indica la realizzazione della persona umana quale il fine ultimo cui tende l’esperienza di vita comunitaria. La Costituzione d’altronde prevede una serie di disposizioni, che operano su due direzioni: affermando un generale “favor minoris” e realizzando un’ampia tutela del minore in quei contesti in cui deve formarsi e crescere. In questa prospettiva nasce il nostro sistema di giustizia minorile con la promulgazione del Codice di Procedura Penale Minorile, che sancisce il concetto per cui nei confronti di un adolescente, di un uomo-persona in formazione, non risulta più idoneo un intervento meramente afflittivo (quale si ritiene possa essere l’irrogazione di una sanzione detentiva) ma si ritiene debbano essere invece ricercate misure duttili e funzionali a favorire il superamento di quella “crisi adolescenziale” che è ritenuta essere la commissione del reato. Questo sistema negli ultimi anni si è sempre più orientato nel favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato, ponendosi come obiettivo pedagogico la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne autore di reato. La preparazione alla vita libera e all’inclusione sociale per prevenire la commissione di ulteriori reati viene realizzata oltre che mediante il ricorso ai percorsi di istruzione e di formazione professionale, di istruzione, soprattutto attraverso l’educazione alla cittadinanza attiva e responsabile.
Quanto influisce il contesto sociale sulle scelte di certi ragazzi?
Lo ripeto spesso: per i giovani la strada, la piazza, il vicolo sono le componenti della loro formazione caratteriale, in questo contesto, impregnato di illegalità, i minori si modellano. In quest’ultimo secolo la città è cambiata radicalmente e lo spazio del degrado, i territori fragili, le periferie sono la rappresentazione reale e fisica di questo passaggio obbligato e non ancora compiuto, carico di contraddizioni, di tensioni, ma anche di possibilità e di aperture. Le periferie non sono solo luoghi da curare ma più integralmente luoghi di cui prendersi cura, perché spazi che danno forma al cambiamento e alla trasformazione. Nel 2010 una ricerca dell’Università Cattolica, commissionata dal Ministero degli Interni, ha messo in evidenza come i tratti salienti delle periferie urbane nel nostro paese siano proprio la presenza di sacche ampie di disagio sociale, abitativo e scolastico, insicurezza e degrado urbano, problemi culturali e comunicativi, carenza di politiche sociali. Negli ultimi anni anche a Napoli si torna a parlare del valore urbanistico di certe periferie prendendo spunto dal dibattito circa la necessità o meno di procedere all’abbattimento delle vele di Scampia.
In questi luoghi gli unici spazi di aggregazione per i ragazzi, non essendoci verde o aree attrezzate, rimangono le sale giochi ed i bar, dove i boss di zona conducono i loro affari; così il minore già incomincia a prendere confidenza con l’ambiente deviante in cui è costretto a vivere. Il minore, oltre a vivere il disagio derivante dalle continue rinunce imposte dalle ristrettezze economiche, ha l’ulteriore svantaggio di abitare in un contesto ambientale esterno caratterizzato da alto indice di devianza e criminalità, nel quale i servizi essenziali invece che essere garantiti dallo Stato sono offerti dalla malavita. Questa continua esposizione, potrebbe portare il giovane in crescita, mosso da spirito di emulazione o ammirazione per coetanei dalle tasche piene di soldi, a cadere nella trappola della criminalità, ritenendola unica via d’uscita da una situazione generale drammatica. Coloro che si trovano in una situazione di maggior debolezza e fragilità, che magari hanno problematiche di indigenza alle spalle o che hanno maggiori difficoltà a socializzare, possono essere spinti alla marginalità o, peggio ancora, all’accesso alla criminalità organizzata, contesti questi che si presentano fortemente attrattivi in quanto più semplici e ricchi di opportunità.
Affinché le nostre periferie e, più in generale, le nostre città non producano patologie simili a quelle che hanno generato le rivolte delle banlieues di alcuni anni orsono in Francia, e che generano quotidianamente disagio e criminalità nel nostro paese, emerge la necessità di identificare e di mettere in atto tempestivamente una serie di interventi che possano far sì che le situazioni critiche non degenerino. Nel corso dell’analisi sono emerse alcune indicazioni che qui brevemente espongo, a conclusione del mio intervento. Le aree deboli, e più in generale i quartieri, devono essere luoghi di interazione, di attività collettive, di comunicazione e di scambio. La loro vita è costruita dalle persone che vi abitano e che debbono trovarvi le opportunità necessarie allo sviluppo di un’appartenenza comune, pilastro sul quale si può costruire una pacifica convivenza. I quartieri devono pertanto essere, o tornare a essere, riferimenti identitari per le popolazioni residenti, cioè dei “luoghi” e non degli “spazi”. Ma soprattutto devono essere “belli”, cioè offrire una qualità della vita che sia gratificante per qualunque individuo e non già deprimente o abbrutente. Per far fronte al disagio sociale, culturale e abitativo delle nostre periferie, occorre quindi predisporre interventi finalizzati a riqualificare le aree degradate e ad assicurare un adeguata promozione del territorio.
Se è un dato di fatto che il degrado genera altro degrado ( la famosa teoria delle “finestre rotte” verrebbe così confermata anche da questa analisi) si afferma inequivocabile la necessità di interventi solleciti ed efficaci non solo riparativi ma soprattutto preventivi. L’affollamento abitativo, la cattiva qualità dei servizi, la pessima qualità estetica sono cornice e talvolta fonte di tensioni e conflitti. È quindi necessario gestire, anche in termini di sostenibilità, l’insediamento urbano giacchè per assicurare il controllo del territorio, non basta la presenza capillare delle Forze dell’ordine ma è necessaria in prima battuta la responsabilizzazione di coloro che abitano in esso, chiamati a essere protagonisti attivi della vita del luogo nel quale vivono e delle buone pratiche di integrazione e miglioramento della qualità urbana. Le crescenti condizioni di degrado sociale ed economico, disoccupazione, evasione scolastica, carenza di servizi sociali e assistenza ai minori devono trovare una idonea risposta istituzionale. È indispensabile e non più procrastinabile nel tempo adottare interventi urgenti e mirati al recupero di minori già coinvolti e prevenire l’ulteriore disgregazione di fasce giovanili. Nella ricerca affannosa tra la identità “ideale” e quella “reale” dobbiamo favorire per ciascun adolescente la disponibilità di spazi e di tempi in cui possano sperimentarsi in relazioni “altre” rispetto a quelle cui sono stati abituati dalla strada.
Spesso si dibatte della possibilità di abbassare la soglia di punibilità. Cosa pensa di questa ipotesi?
È un tema giuridico sul quale si ritorna ogni qual volta il sistema di giustizia minorile soffre momenti di crisi. Come se la punizione fosse l’unico strumento adatto a garantire la sicurezza sociale. Se è vero che i minori cadono nella devianza assai presto, io credo che l’abbassamento della punibilità sia un tema relativo. Vede il sistema già prevede degli strumenti di intervento nei riguardi di un minore di anni 14 che devia, magari potrebbero esser strumenti potenziati e migliorati. Il problema invece è altro: decodificare i bisogni degli adolescenti ed offrire risposte adeguate in termini di accompagnamento educativo e sicuramente anche di contenimento, che non vuol dire necessariamente e semplicemente punire.
Ci spiega il “modello Nisida”?
Ogni pedagogia è un modo di vedere il mondo, i rapporti tra gli uomini, il rapporto con il proprio tempo, ma anche con il futuro. L’educazione ha a che fare con la cultura, con le pratiche attraverso le quali si trasmettono valori e conoscenze non solo da una generazione all’altra, ma anche orizzontalmente nelle relazioni sociali. Questa trasmissione non va intesa come qualcosa di passivo ed unidirezionale, è allo stesso tempo un apprendimento che mette in gioco l’intera persona, la sua identità, la sua formazione umana. Educare, vuol dire educare alla libertà di essere uomini. La libertà non si insegna, si può solo mostrare nei fatti, nel riferimento ai valori vissuti, non è mai acquisita una volta per tutte, ma piuttosto è un punto di partenza. È un processo in cui è opportuno sacrificare l’autorità a vantaggio della libertà. Per favorire lo sviluppo dalla dipendenza alla autonomia. Spesso mi capita di definire questi giovani come prigionieri di un’infanzia prolungata, condizionati nel loro agire dalle aspettative di performance imposte dalla famiglia e dall’ambiente. Ragazzi che scaricano le loro frustrazioni nella rabbia, perdendosi in una realtà asensoriale dove si riempiono del “nulla assoluto”. Le nostre azioni dipendono direttamente dalle nostre emozioni. Sentiamo odio e, allora, agiamo in modo distruttivo; nutriamo amore e, allora, ci comportiamo in modo costruttivo. Per questo, se riusciamo a mitigare le emozioni antisociali, con ogni probabilità riusciremo a temperare anche i comportamenti antisociali. Da qui nasce secondo me l’esigenza di educare le nuove generazioni ad attivare relazioni di cura e aiutarli a ritornare alla centralità del valore fondamentale della persona. La relazione di cura genera rapporti nuovi di cui oggi abbiamo bisogno più che mai. La cura di sé, la cura del creato e la prossimità all’uomo -ed in particolare a chi si è smarrito- potrebbero essere le fondamenta sulle quali costruire da domani il bene comune della nostra città.
Quale può essere il ruolo del volontariato nel recupero dei minori all’interno degli istituti di detenzione e oltre le mura?
Vede io devo parte della mia formazione umana e professionale al volontariato, quindi credo fortemente nella forza di questo sociale. A Napoli i volontari sono spesso protagonisti silenziosi di vere rivoluzioni culturali, tra l’altro moltissimi sono proprio giovanissimi, con iniziative simboliche ma concrete si propongono di riappropiarsi della città degradata, riqualificandola ed imponendo all’Amministrazione di interfacciarsi con i problemi della quotidiana vivibilità. Forse la chiave di svolta può essere proprio la costruzione di quello che alcuni indicano come il modello sociale del futuro, che vuol dire porre al centro le reti del volontariato e della responsabilità , della cittadinanza attiva e della politica dei fatti, rendendo i cittadini responsabili dei bisogni della collettività e dando loro il potere che oggi è racchiuso nelle mani invischiate della burocrazia e del mercato. Questo vuol dire creare identità e generare fiducia verso lo Stato: ciò di cui i nostri ragazzi hanno estremo bisogno. Lanciare la rivoluzione della Big Society in cui semplici cittadini si uniscono tra di loro e attraverso organizzazioni civiche cercano di creare un nuovo tipo di società fondata sul perseguimento del bene comune e del soccorso reciproco potrebbe essere la risposta propositiva ad un naturale bisogno di protagonismo attivo.

di Francesco Gravetti