di Marco Ehlardo

NAPOLI- Si avvicinano le elezioni a Napoli, e poiché sarò uno dei pochi a non candidarsi (storicamente tra consiglio comunale e municipalità finisce per esserci sempre almeno un candidato per condominio) mi posso prendere la libertà di fare qualche domanda ai candidati alla carica di Sindaco di Napoli (ma anche a quelli al consiglio comunale) sul welfare cittadino.  Non mi interessa in questo luogo fare un’analisi di cosa sia stata l’esperienza degli ultimi 5 anni riguardo le politiche sociali in città, tanto immagino le risposte che riceverei: rivoluzionarie per i fautori della giunta uscente, disastrose per gli altri. Su questo non mi esprimo, o almeno non ora. Ci tengo solo a precisare che i problemi e i dati che riporterò di seguito non sono relativi solo agli ultimi 5 anni, ma sono tutti di più lunga durata. Mi interessa molto più capire, adesso, cosa hanno in serbo per noi i candidati per il prossimo quinquennio. Ho preso tre temi. Per ognuno una domanda finale ai candidati.

  1. Esclusione sociale. I tassi di povertà restano elevati, così come la disoccupazione, in particolare giovanile, e l’inoccupazione femminile (quasi tre donne su 4 non lavorano). Aumentano i senza dimora (stime oltre i 1.500), la dispersione scolastica è a livelli inaccettabili, e a tutti gli angoli delle strade napoletane troviamo qualcuno che vive di elemosina (soprattutto migranti, ma non solo). Aggiungiamo che Napoli resta tra le città più care d’Italia per il costo degli affitti (sesta), cosa senza molto senso considerando il livello dei servizi e le possibilità relative di trovare occupazione. E’ chiaro che il Comune non ha né il compito né i mezzi di trovare lavoro alle persone, ma ha sicuramente l’obbligo di provvedere al contrasto dell’esclusione sociale attraverso i suoi servizi. La domanda è: cosa non ha funzionato o ha funzionato meno del necessario fino ad oggi, e quali interventi si propongono di attuare?
  1. Diritti dei lavoratori del welfare. In questa città chi lavora con i poveri molto spesso ha una condizione economica e di stabilità lavorativa ai limiti della povertà. Negli anni i servizi sono stati sempre più privatizzati (ossia affidati al terzo settore, che è comunque un privato), e dunque ottenere un lavoro stabile in Comune in questo settore è una chimera (a quando un concorso comunale?). Per vari motivi (storici ritardi dei pagamenti del Comune o inefficienza di alcune organizzazioni) gli operatori del settore hanno risentito della crisi come e a volte più delle persone che assistono. A volte, poi, gli operatori hanno contratti che prevedono un certo compenso orario, ma in realtà percepiscono molto meno, e l’amministrazione, che affida questi servizi, non controlla. La domanda è: di chi sono le responsabilità, e che strumenti intendono mettere in campo per una efficace ed effettiva tutela di questi lavoratori?
  1. Trasparenza. Il nostro concittadino Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, non è andato troppo per il sottile su questo tema: in Italia (quindi non solo a Napoli) il ricorso agli affidamenti diretti ed alla procedura negoziale è troppo abusato. Le procedure negoziali, lo ricordiamo, sono quelle nelle quali le amministrazioni pubbliche consultano gli operatori economici scelti da esse stesse e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’appalto. Non è una procedura sbagliata in se, tantomeno illegale, e spesso ha motivazioni plausibili che possono costringere le amministrazione ad usare questa procedura. Ad esempio criteri di emergenza (che vuol dire però mancanza di programmazione), la continuità del servizio (che però richiede un serio monitoraggio che sia stato gestito bene), o l’assenza di risorse per interventi più stabili, per cui si procede con affidamenti veloci e di breve periodo volta per volta (e si torna al problema di programmazione). Di certo, però, questo limita la trasparenza e rende impossibile a nuovi soggetti, magari potenzialmente più efficaci, l’ingresso in determinati settori della gestione dei servizi. Dato per scontato che tutti vorranno diminuire l’uso di queste procedure (compreso il terzo settore, mi auguro, tanto chi è bravo vincerà lo stesso), la domanda è: come intendono affrontare le cause che portano a questo tipo di affidamenti?

Poche semplici domande, che però riguardano il futuro di migliaia di persone, in particolare di quelle più in difficoltà. Aspettiamo con interesse le risposte che qualcuno vorrà darci. E se nessuno risponderà, probabilmente vorrà dire che il candidato migliore sarà l’astensione?

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