migrante NAPOLI- Seduto di fronte a noi c’è Kevin (un nome inventato), occhi dolcissimi, pelle di ebano, gambe lunghe e un sorriso contagioso stampato sul viso. Ha ragione di sorridere, Kevin, ora, dopo tanta sofferenza, finalmente tutti i suoi sogni sono a portata di mano. O meglio di piede. Oggi ha 16 anni e vive a Cicciano, in provincia di Napoli, nella Comunità Alloggio “Villabate”, sotto la guida di uno staff di professionisti che si occupa di lui e degli altri 7 ospiti della struttura (tutti minori), con un’attenzione e un amore palpabili. Ma non è sempre stato così. Kevin, infatti, è nato a Brufut, in Gambia, ed è arrivato in Italia alla fine dell’estate 2014 con addosso nient’altro che una t-shirt e un paio di pantaloni e in testa un sogno grande: diventare un calciatore. «Sono partito dal mio Paese un venerdì notte, dopo un litigio con mio padre. Si era accorto che spesso, insieme a mio fratello, marinavamo la scuola per scappare al campo da calcio e così, stanco di rimproverarmi inutilmente, mi ha messo davanti ad una scelta: o resti qui e fai il tuo dovere, o parti per inseguire il tuo sogno. E io ho scelto di partire». Era il 2012, Kevin aveva solo 13 anni,ma  ha deciso di intraprendere il viaggio verso il suo futuro. Ha percorso centinaia di chilometri con auto, pullman, camion e, infine, anche un terribile barcone. Solo per arrivare in Libia, Paese in cui si è imbarcato, ha impiegato un anno; un altro anno è passato, poi, nell’attesa di poter salpare.

Ci racconti il tuo viaggio?

«Ho attraversato il Senegal, il Mali, il Burkina Faso, la Nigeria- racconta-, poi il deserto e, infine, sono arrivato in Libia. Viaggiavamo di giorno, su mezzi sgangherati. Di notte si dormiva dove capitava, spesso a terra. In ogni nuovo Paese dovevo aspettare che mio padre mi facesse arrivare i soldi per ripartire, chiedevano sempre più soldi. Molti, arrivati a metà strada, erano costretti a tornare indietro. Arrivati in Libia, poi, ci hanno sistemati in una casa, eravamo tanti, e per un anno tutti sono stati costretti ad andare a lavorare per racimolare il necessario per proseguire il viaggio. Io sono stato fortunato, ero piccolo e così un ragazzo gentile si è preso cura di me, offrendosi di aiutarmi a pagare la mia traversata col suo lavoro. Ora siamo grandi amici».

Quanta paura hai avuto?

«Tanta. Ricordo che quando sono arrivato in Nigeria ero stanco, volevo tornare a casa, ma non si poteva. Allora ho desiderato arrivare il più in fretta possibile, ma non è stato così. Ci sono voluti undici giorni per attraversare il deserto, non me lo aspettavo. Ingenuamente, il primo giorno avevo già terminato tutta l’acqua che avevo portato con me. Per fortuna anche stavolta ho trovato persone buone che mi hanno aiutato. Ma è stata dura. Eravamo in dieci stipati in una piccola macchina, faceva caldo. Un uomo è morto durante la traversata, l’abbiamo seppellito lì nel deserto. E’ stato orribile».

Qual è stato il momento più terribile del viaggio?

«In Libia, al momento di imbarcarci, delle persone cattive ci hanno tolto tutto, per fino le scarpe. Ci hanno caricati su un vecchio gommone, era buio, eravamo tanti. Dopo due giorni in mare, finalmente, un elicottero ci ha avvistati ed ha allertato i soccorsi, ma all’improvviso il nostro capitano è fuggito via a bordo di un’altra imbarcazione sbucata dal nulla, squarciandoci il gommone. E’ stato il panico. La gente urlava, piangeva. Molti pregavano, qualcuno provava a buttare fuori l’acqua che entrava sempre più. Io ho avuto tanta paura, ho pensato di morire. Ad un tratto, abbiamo avvistato una grande nave che ci veniva incontro. Si sono avvicinati, parlavano italiano e ci lanciavano giubbotti di salvataggio. Le persone sul gommone, però, hanno iniziato ad agitarsi. Tutti urlavano e si spingevano tra loro per la fretta di salire. E’ stato allora che ho  visto una mano tesa verso di me: era un uomo, un militare credo, mi ha tirato sulla nave e mi ha coperto subito con il suo giubbotto perché non avessi più freddo. Mi ha salvato».

Una volta arrivato al porto di Napoli, dopo due anni di silenzio, è finalmente riuscito a chiamare sua madre in Gambia. La povera donna, però, ci ha messo un po’ a capire chi ci fosse dall’altra parte del telefono: «Kevin non c’è, è morto»  continuava a ripetere la donna tra le lacrime. Per fortuna Kevin è vivo, è arrivato nella sua terra promessa e adesso non vuole altro che realizzare il suo sogno. Ha talento il ragazzo, lo dicono tutti, e molte squadre di calcio si sono già interessate a lui. «Avevo 5 anni quando mio padre mi ha comprato il primo pallone e da allora non ho mai smesso di giocare. Ora sono qui e finalmente ho l’occasione di far vedere al mondo quello che so fare. E quando finalmente avrò abbastanza soldi, farò in modo che anche la mia famiglia possa venire a vedermi in Italia. Ma non come ci sono arrivato io. Voglio che loro viaggino comodamente su un aereo».

di Nunzia Capolongo

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