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Dal deserto al mare: i sorrisi dei bambini saharawi che insegnano la resilienza

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Un bambino saharawi che si tuffa in mare per la prima volta, tra urla di gioia e un po’ di paura, racconta più di mille discorsi sulla pace. È un’immagine che resta impressa, come il sorriso di una bambina che stringe tra le mani un gelato, o lo stupore davanti a una scala da salire, a un tavolo dove sedersi insieme agli altri. Sono piccoli segni, “prime volte” che per noi non hanno peso, ma che per chi cresce nel deserto diventano conquiste indimenticabili.

Anche quest’estate undici bambini saharawi – sei maschi e cinque femmine – sono arrivati a Quarto, accolti per una settimana a Casa Arcobaleno, bene confiscato alla camorra e restituito alla comunità. Hanno trascorso anche una giornata a Casa Mehari, insieme ai ragazzi de La Bottega dei Semplici Pensieri e del VolCamp. Piscina, giochi, pranzo condiviso: momenti semplici, eppure capaci di raccontare l’essenza dell’accoglienza. È il terzo anno che la città flegrea apre le porte ai piccoli del deserto. E ogni volta la magia si rinnova.

Ma l’esperienza non si ferma alla gioia di qualche giorno spensierato. Il gruppo è seguito da Aisha Foundation, realtà che da anni opera nei campi profughi saharawi portando cure mediche laddove non esiste nulla. In un luogo dove l’acqua è razionata e diventa merce di contrabbando, dove i bambini crescono scalzi tra le pietre e la sabbia, Aisha porta dentisti e medici, strumenti minimi ma vitali per chi non ha accesso neppure ai servizi essenziali.

«Noi siamo nati per stare dove non arriva nessuno – racconta Barbara Melcarne –. Nel deserto saharawi portiamo prevenzione e cura, soprattutto odontoiatrica, perché la salute non può essere un privilegio, ma un diritto universale. Questi bambini hanno conosciuto la guerra e la mancanza di tutto, eppure sanno ridere e guardare avanti con una forza che ci spiazza. A noi chiedono soltanto di non dimenticarli».

Il popolo saharawi vive da quasi mezzo secolo nei campi del Tindouf, in Algeria, separato dalla propria terra da un muro di oltre duemila chilometri costruito dal Marocco. La Repubblica Araba Saharawi Democratica, proclamata nel 1976, rivendica la sua indipendenza, e dal 1991 l’ONU chiede un referendum che però non si è mai tenuto. Intanto, la guerra, mai davvero conclusa, si è riaccesa negli ultimi anni. Così, generazioni intere crescono nell’attesa di una libertà promessa e non concessa, in un tempo sospeso che ha il sapore della sabbia e del vento.

La vita nel deserto è dura, ma sorretta da una struttura sociale matriarcale che tiene unite le comunità. Le madri e le nonne portano avanti l’educazione, organizzano la quotidianità, difendono la dignità di un popolo dimenticato. I bambini imparano presto ad adattarsi: giocano a terra perché non ci sono sedie né tavoli, si feriscono i piedi camminando scalzi tra le rocce, conoscono il caldo che brucia di giorno e il freddo che punge di notte.

Per questo l’Italia, per loro, è un sogno che prende forma: il mare infinito di Agropoli, la freschezza di una piscina, l’allegria colorata di un centro commerciale, un panino da Mc Donald’s. Dettagli che raccontano un mondo diverso, fatto di possibilità. «Sono esperienze che resteranno per sempre – aggiunge Melcarne –. Non solo perché vivono per la prima volta certe emozioni, ma perché scoprono che esiste davvero un futuro diverso dal deserto».

Accogliere i bambini saharawi significa ricordare che dietro le crisi geopolitiche e le mappe disegnate dalla diplomazia ci sono volti, nomi, storie. Significa scegliere di non voltarsi dall’altra parte. La solidarietà, almeno in questo caso, smette di essere retorica: è un tuffo in piscina, un piatto condiviso, una visita dentistica nel deserto. È la capacità di trasformare gesti semplici in diritti fondamentali.

Ma se la felicità per un bambino può essere un gelato al sole o il rumore delle onde, è compito di tutti fare in modo che quella felicità non sia soltanto una parentesi, ma un diritto riconosciuto. Perché i diritti troppo spesso restano prigionieri del deserto.

 

di Francesco Gravetti

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