di Riccardo Noury*
Il 1982 è stato un anno pericoloso per il Salvador. La guerra civile era cominciata due anni prima e, nelle aree controllate dai ribelli, l’esercito sparava su chiunque: contadini, bambini, donne, anziani. Era agosto quando le forze armate lanciarono un’offensiva nella regione di San Vicente, nel nord del Paese, un’area considerata dai militari una roccaforte della guerriglia. Dopo settimane di bombardamenti si diffuse la voce che l’esercito avrebbe inviato le truppe di terra a finire il lavoro. “Le forze armate – ricorda Felicita una delle sopravvissute in un’intervista con Amnesty International – avevano chiamato l’operazione terra bruciata perché volevano distruggere ogni cosa: persone, animali, case. Volevano che la gente rimanesse senza nulla”.
La sera del 21 agosto centinaia di persone cercarono rifugio per la notte sulle sponde del fiume Amatitàn, in un posto chiamato El Calabozo. Il piano era di continuare a muoversi il giorno dopo, una volta che i bambini avessero riposato. Ma all’alba l’esercito era già lì. ”I soldati – racconta ancora Felicita ad Amnesty – erano già ovunque e dissero che la popolazione doveva radunarsi e formare una fila. La gente chiedeva di essere risparmiata per via dei bambini. Ma l’ufficiale al comando diede l’ordine di sparare e questo segnò la fine di quei poveretti“. Felicita si è salvata soltanto perché si era nascosta in una buca con uno dei suoi figli.
Ancora oggi non si ha idea dell’esatto numero di persone uccise. I soldati del battaglione Atlacatl, addestrato dagli americani, secondo i racconti avrebbe addirittura gettato dell’acido su alcuni corpi. La corrente del fiume ha fatto il resto portato via molti cadaveri.
I sopravvissuti e i familiari delle vittime hanno stilato una lista di 200 persone scomparse tra bambini, adulti e anziani. Jesus quel giorno ha perso la madre, il padre, il fratello e un figlio di 4 anni. Ancora oggi si sveglia di notte piangendo: ”Ci ho messo anni per accettare quello che era accaduto. Camminavo piangendo, mangiavo piangendo, dormivo piangendo“.
Nel 1992 i sopravvissuti chiesero alle autorità di aprire un’inchiesta. Un anno dopo il caso fu chiuso nonostante un rapporto della Commissione delle Nazioni Unite avesse documentato il massacro. Da allora la battaglia delle associazioni per i diritti umani e dei familiari delle vittime è stata quella di far riaprire l’inchiesta. Ci sono riusciti nel 2006 ma ancora non si è arrivati a un processo. Un po’ poco considerato che sono ormai passati 30 anni dal crimine.
Ma c’è di più: alcune delle persone sospettate del massacro occupano tuttora posizioni di rilievo. ”I sopravvissuti e i parenti delle vittime di El Calabozo rivivono ogni giorno il dolore della perdita perché non hanno ottenuto giustizia” dice Esther Major, la ricercatrice di Amnesty International in Salvador che ha conosciuto di persona alcuni dei protagonisti di questa triste storia.
Una notizia positiva però c’è: di recente il governo ha riconosciuto la responsabilità dello Stato in un altro massacro, quello di El Mozote nel 1981 dove furono uccise più di 750 persone. Ma la gente di El Calabozo ancora aspetta giustizia. E trent’anni dopo molti dei sopravvissuti sono morti. Quelli che sono ancora vivi però non mollano e oggi si raduneranno sulle rive del fiume Amatitán per ricordare che un altro anno è trascorso senza colpevoli. Speriamo che il prossimo sia diverso.
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