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testo di Marco Gasperetti – foto di Manuela Nigiotti
NEW DELHI. Namasté. Con le mani giunte che sfiorano il naso e gli abiti poveri ma di un colore e di una finezza di stoffe impossibili per chi vive l’effimero della cultura occidentale, le bambine dell’antico quartiere di Delhi salutano e sorridono. I vicoli trasandati e sporchi nascondono vestigia importanti, i palazzi scalcinati, conservano ancora una bellezza architettonica dei tempi d’oro (ma ci sono stati realmente?), i colori pastello non sono mai azzardati come in alcuni accostamenti occidentali di un postmodernismo allo sbaraglio. E infiniti grovigli di cavi elettrici, pericolosamente ancora in funzione, t’accompagnano in questo viaggio impossibile. Nella scena incongrua, passato e presente, miseria e ricchezza, tradizione e innovazione si uniscono in un mix unico e per noi occidentali, incomprensibile.
«Namasté», ripete la bambina che vende sete colorate e accanto a una ciottola per il mangiare nasconde, inaspettato, un cellulare, mentre una vacca sacra, smunta nel mese che precede l’attesissima stagione dei monsoni, viene accarezzata come un cagnolino.
India 2012. Viaggio ai confini di un mondo sublimemente strampalato. Camminando in quei vicoli, a piedi (se riesci ad evitare un traffico selvaggio, ma mai cattivo) o con il risciò a pedali trainato da un autista-kamikaze (sfiora auto e moto come fiori durante una corsa in un campo a primavera), a volte credi di vivere il futuro un po’ torbido, ma ugualmente affascinante, di Blade Runner. Ma in altri momenti sei rapito dalla spiritualità di un «popolo incredibile», che nonostante un sistema così ineguale da sembrare medievale, riesce a sorridere e ad essere persino felice. Come racconta Amal, la guida che ha imparato sei lingue e un italiano perfetto e non ha mai messo piede del nostro paese. Amal, 36 anni, laureato con lode, lavora saltuariamente con gli occidentali, mantiene i genitori (ex insegnanti) perché la pensione non esiste più e aspetta di sposarsi. «La mia sposa? L’hanno scelta i miei genitori – spiega – e io naturalmente accetto perché, certamente, hanno scelto il meglio per me».
Certo, nell’India dei colletti bianchi e di una ricchezza che si espande a «macchia di leopardo» anche le usanze indi sono soltanto esteriori. I figli chiamano i genitori. E le scene pre matrimoniali sono un po’ diverse da quelle raccontate dal tradizionalista Amal. : «Papà, ho scelto una ragazza, si chiama…. Dunque proponimela». Ma le usanze resistono, soprattutto dove la spiritualità penetra ovunque. Ed è facile sentirla, anche per noi occidentali, storditi da un tour che ci ha scosso nel profondo. Vedi la povertà, un welfare inesistente (l’assistenza sociale non c’è, la pensione neppure, le disuguaglianze sono macroscopiche, le caste continuano a prosperare nonostante siano state recentemente proibite dal governo), bambini nudi che scavano nei cumuli di spazzatura, baby-prostitute e rabbrividisci.
Poi, davanti al Gange all’alba, lo spirito si risolleva. Sulle sponde uomini e animali (ci sono le vacche sacre, ma anche le scimmie, i cani gialli, capre) guardano al grande fiume purificatore. Yasin, il vecchio barcaiolo dai baffi bianchi e dall’impressionante somiglianza con il mahatma Gandhi, è tornato al lavorare da poco. Il figlio è proprietario di quattro barconi e dunque è un benestante. Lo stava mantenendo, come tutti i figli fanno con i padri da generazioni, ma lui Yasin era triste. «Depressione da non lavoro», la diagnosi del medico-guru. Così il vecchio, dalle vesti tradizionali bianche, ha deciso di tornare sul Gange a remare, all’alba. Alle 5 i suoi rami sfiorano un fiume scuro e opaco, alle 5,30 i primi raggi dell’aurora iniziano a colorarlo. E allora sulle sponde di Varanasi lo spirito dell’India si anima. I lavatori di panni sbattono i lenzuoli sulla roccia mentre, a non meno di due metri, si crema un morto. Il figlio del morto, che ha acceso la pira, si è appena fatto rasare il capo come vuole la tradizione e calvo e triste vede il padre svanire prima nel fumo e poi nelle ceneri che si disperdono nel Grande Fiume. Mentre in lontananza il suono di un sitar si unisce allo squillo di un telefonino.