LIBIA. «In tanti pensano che le donne libiche stiano chiuse in casa e non facciano niente per cambiare le cose» racconta a Mtv una ragazza di Bengasi. Ma non è così. Alcune di loro sono colte, usano internet, sanno l’inglese, sono determinate e indipendenti. Molte sognano di esserlo, un giorno. Così, dopo la fine dell’era Gheddafi, mentre il sangue continua a scorrere per le strade della Libia, ci sono donne che stanno lavorando per il futuro del proprio Paese, nonostante le violenze e la paura. Sette di queste – Alaa Murabit, Ezad Youssef Elghebblawi, Dania Zada, Rayan Fuad, Samah Ben Gabber, Nuwara Al-hebshi, Maram Al Gablawi – sono venute in Italia per un “Soggiorno formativo a Roma per 7 donne libiche imprenditrici”. Il progetto è stato organizzato dalla associazione Pari o Dispare, supportato dal ministero degli Affari Esteri, con il sostegno di Eni, e ha visto in prima fila personalità del mondo istituzionale italiano tra cui Marta Dassù, sottosegretario agli Esteri, Emma Bonino, vicepresidente del Senato e Elisabetta Belloni, direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo. Tutte donne, dunque, che si sono messe intorno a un tavolo per cercare di capire come aiutare altre donne a far sì che la primavera araba non si trasformi in un’occasione mancata. Soprattutto per un paese dove solo il 27% delle donne lavora e dove solo il 22% dei ricercatori universitari è di sesso femminile, come hanno raccontato Viviana Mazza e Farid Adly su la 27esima ora. «Io non credo che in Libia prenderà piede il fondamentalismo come sta accadendo in Egitto», spiega Alaa Murabit, laurea in medicina a Zawia, ottimo inglese e studi all’estero. «Non bisogna generalizzare: la primavera araba avrà conseguenze diverse. Per 42 anni non si è votato. Ora le cose stanno cambiando”.Ma cambieranno anche per le donne? ”Tante sono le cose che ci vengono impedite e non per motivi religiosi», sottolinea. «Per le donne libiche troppo contano ancora le pressioni familiari e sociali, che rendono più difficile avere accesso a un diploma». Ed ecco perché bisogna partire proprio da lì, dall’istruzione e dal lavoro.Alaa Murabit e le altre sei donne ci stanno provando. «Credo che l’Italia sia il paese che ci può aiutare di più: le nostre storie si sono intrecciate. Inoltre viviamo tutte sulle sponde del Mediterraneo: è giusto che si apra un dialogo tra noi».Tra queste sette donne, forti dei loro titoli di studio, conseguiti all’estero o in patria, quasi tutte madri di parecchi bambini, c’è chi semplicemente vuole mettere a frutto ciò che ha imparato a scuola, chi grazie a un diploma in legge vuole che le donne non vivano più sotto “l’ombrello del marito” , chi fa la giornalista, chi lavora nel marketing. E chi nel no profit, come Alaa Murabit che ha fondato la Ong The Voice of the Libyan Women. «Lavoriamo a 360 gradi per ridurre il gender gap», spiega Alaa. Dalla condizione economica (“abbiamo avviato progetti di microcredito”), passando per la lotta alla violenza sulle donne (“siamo partite dalle campagne di sensibilizzazione”), fino all’empowerment economico («i nostri corsi hanno aiutato parecchie donne a pensare che l’indipendenza economica sia possibile») e alla partecipazione politica. Un lavoro duro? «Già, anche perché siamo in poche. Ma sono sicura che darà i suoi frutti». Alla faccia di chi vuole il Medio Oriente come un luogo senza luce, dove le donne non riescono a fare nulla per cambiare le cose.

di Marta Serafini (Corriere.it)

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