Da sempre le donne devono misurarsi con i canoni estetici della bellezza, a cui, secondo l’epoca storica di appartenenza, devono corrispondere. Infatti la bellezza non è mai stata un valore assoluto e atemporale, da quella fisica a quella divina, passando per la bellezza della natura. Il suo concetto ha assunto forme diverse: è stata armonica o dionisiaca, si è associata alla mostruosità nel Medioevo e all’armonia delle sfere celesti nel Rinascimento; ha assunto le forme del “non so che” durante il Romanticismo, per cambiare ulteriormente forma nel Novecento, così ci ha spiegato Umberto Eco nel suo libro che ne ricalca la storia. Al concetto di bellezza è sempre stato intrinsecamente legato quello di perfezione, oggi, esasperato da un mondo che poggia sull’assenza di sbavature, tanto che le differenze, tra i generi e le generazioni, si stanno assottigliando sempre di più: i maschi assomigliano alle femmine, i vecchi ai giovani. Giusto per fare qualche esempio. Basti vedere le pubblicità, il bombardamento quotidiano che ci spinge a somigliare a quello che gli altri dicono sia bello.
Secondo lo psicologo Paul Schilder, “l’immagine corporea è l’immagine e l’apparenza del corpo umano che ci formiamo nella mente e cioè il modo in cui il nostro corpo ci appare”. E così come possiamo emozionarci nell’ammirare l’arte, allo stesso modo proviamo emozioni nell’osservare il corpo, attiviamo sensazioni, facciamo riemergere ricordi, stimoliamo la memoria. La giornalista Maria Giovanna Capone, con il suo lavoro fotografico I’MPERFECT, è partita proprio dal corpo di dieci donne, “una tela dove sono impressi il vissuto, le esperienze, il dolore, le trasformazioni” provando a rovesciare il canone classico della perfezione.
«I’MPERFECT – spiega la fotografa – è nato proprio dall’esigenza di voler mostrare che l’omologazione della bellezza sta diventando un problema culturale di questa società. Il boom dei social come instagram ci mostrano donne perfette, tutte identiche, senza nessuna lievissima imperfezione sulla pelle o nel corpo. Una perfezione impossibile da avere in natura».
«La standardizzazione della bellezza – continua – ci sta quindi portando a un appiattimento visivo, dove ciò che è imperfetto è da escludere, ripudiare, eppure ciascuno di noi è imperfetto e soprattutto per noi donne ambire a quella perfezione è sinonimo di rinunce, sacrifici, sofferenza. Ecco allora che ho voluto concentrarmi sulla bellezza non convenzionale, estremizzando il concetto che volevo esprimere coinvolgendo donne che per nascita o per vissuto avevano un corpo con cicatrici, deformazioni e giudicato imperfetto dagli altri».


La scelta delle donne da ritrarre è caduta su quelle che sentivano di aver superato o che quanto meno stavano affrontando la loro «imperfezione» fisica e qui la fotografia, come si conviene all’arte, ha svolto la sua funzione catartica dando la possibilità alle dieci muse di raccontare al mondo il proprio doloroso percorso. Il metodo di lavoro di Maria Giovanna Capone è stato quello di entrare in relazione con ciascuna di loro, ascoltandone la storia, creando un sentimento di fiducia, necessario per operare dietro la macchina fotografica. Quello della fotografa e dei suoi soggetti è stato un prendersi per mano e camminare insieme per mostrare che «imperfetto è solo un tempo verbale, qualcosa che appartiene al passato, qualcosa da mettere alle proprie spalle perché ogni segno sul corpo è una prova superata». Ogni «imperfezione» messa a nudo è una prova di coraggio, un gesto di amore verso se stesse, un esempio di resilienza di cui, in questo mondo, si avverte un maledetto bisogno.

di Ornella Esposito