GERUSALEMME. «Il 28 ottobre 1910 noi compagni, dieci uomini e due donne, abbiamo fondato un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune». L’iscrizione sulla pietra e il patto che suggellava non sono riusciti a celebrare il centenario. Sei anni fa l’85 per cento dei 320 abitanti del kibbutz Degania, sulle rive del lago di Tiberiade, ha votato per abolire l’organizzazione collettiva: da compagni a soci, stipendi differenziati a seconda dei meriti, case a prezzi (quasi) di mercato.
Degania è stato il primo villaggio agricolo a essere fondato, non è stato l’ultimo a venire privatizzato. La crisi economica dei kibbutz si è trasformata in recessione degli ideali: nel prossimo Parlamento potrebbero non esserci rappresentanti del movimento che ha creato lo Stato d’Israele. «Nella prima Knesset sedevano 26 membri di kibbutz — ricorda con malinconia Yossi Sarid sul quotidiano Haaretz — tre volte la loro quota percentuale nella popolazione del tempo. Cinque erano diventati ministri. Tutto è finito nel 1977, quando Menachem Begin (leader del Likud, ndr) li descrisse come edonisti. Non si sono mai ripresi, malgrado il loro contributo incomparabile alla fondazione e alla difesa del Paese. Nessun deputato tornerà più a casa da Gerusalemme nel fine settimana per mungere le mucche o lavare i piatti nella mensa comunitaria».
Nelle 34 liste presentate per il voto di martedì prossimo i kibbutznik sono in posizioni troppo difficili, tutti fuori dal numero di seggi previsti dai sondaggi. Perfino i laburisti hanno scelto di conferire il posto garantito per il settore agricolo a Danny Atar, che non abita in un kibbutz. La leader Shelly Yachimovich vuole tagliare con il passato socialista, le interessano i voti dei giovani borghesi che vivono a Tel Aviv o scelgono la campagna solo perché è più sana per i figli. L’ex giornalista televisiva è consapevole che dai villaggi collettivi non arriva più il sostegno che una volta garantiva la vittoria del suo partito. Alle elezioni di tre anni fa, il 31,1 per cento dei membri dei kibbutz ha votato per Kadima, il 30,6 per il Labour, il 17,7 per Meretz e il 5,8 addirittura per il Likud.
Scegliere i conservatori non comporta più la scomunica dei «compagni». Evyatar Dotan ha organizzato le visite elettorali nelle cooperative per i candidati di Yisrael Beitenu, alleato con il Likud di Benyamin Netanyahu. C’è andato anche il leader ultranazionalista Avigdor Lieberman, che piace «perché ha sostenuto gli agricoltori nei momenti più difficili». Fino a due anni fa Dotan era un sostenitore di Meretz «ma ha smesso di rappresentare gli interessi dei lavoratori — dice ad Haaretz — e ha scelto di inseguire le mode dei radical chic di Tel Aviv. Ci siamo sentiti orfani, adesso c’è l’opportunità di trovare qualcuno che ci dia una mano». È quel che pensa Yaakov Bachar, capo dell’assocazione allevatori: «Quelli che abbiamo sempre pensato essere dalla nostra parte sono dei veri alleati? E gli avversari di una volta… Sono ancora i nemici da combattere?».
L’unico kibbutznik ad avere qualche possibilità di entrare in Parlamento sta ancora più a destra, con la squadra di Naftali Bennett: Zvulun Kalfa era tra i coloni evacuati dalla Striscia di Gaza nel 2005 ed è diventato il responsabile della comunità di Shomriya nel deserto del Negev. «Gli insediamenti agricoli vivono tutti gli stessi problemi, al di qua o al di là della Linea Verde» commenta.
«Un’era è finita — scrive Yossi Beilin, tra gli artefici degli accordi di Oslo, su Israel Hayom —. D’ora in avanti se il movimento vorrà contare e influenzare le decisioni politiche dovrà affidarsi alle pressioni dei lobbisti».
Davide Frattini
Davide Frattini, Corriere della Sera | 18 Gennaio 2013

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