NAPOLI- Per Susanna i chili di troppo, che non aveva, erano diventati un’ossessione. Li sentiva e vedeva ovunque, sulle sue guance scarne, sulla sue gambe magrissime e deboli, sulla sua pancia piatta e ossuta. La sua era una guerra contro se stessa: si era convinta, che per il suo essere “inadatta” al mondo, l’unica soluzione possibile fosse annientarsi, scomparire, diventare invisibile. Ogni giorno sempre più, a poco a poco, in un lungo percorso di negazione, che ebbe inizio con il vomitare sofferenze, dolori e rabbie, fino a non aprire più bocca per cibarsi.
LA STORIA- La storia di Susanna, parte da lontano assieme a lei. Ha otto anni, quando una coppia italiana la raggiunge in un orfanotrofio situato in un piccolo e povero paese non lontano da Bucarest, per adottarla. Non ha mai conosciuto la sua famiglia di origine e della sua infanzia vissuta “nel luogo dell’orrore” – come lo definisce- preferisce non ricordare nulla. Arriva in Italia, consapevole solo delle assenze e delle rinunce alle quali era stata costretta: una famiglia, un piatto caldo sicuro, attenzione e amore. Tutte sensazioni sconosciute, che le sembravano così anormali e distanti da ciò che le era appartenuto fino a quel momento. «Sono arrivata a Napoli – racconta Susanna-, che sembravo un maschiaccio, ero già esile, minuta. Avevo la testa completamente rasata, perché lì, in “quel posto”, quasi tutti i bambini erano affetti da pediculosi. Il passaggio dal mio mondo alla realtà che stava per risucchiarmi, fu devastante. Non riuscivo a capire. Pensavo alla mia vita in Romania, che mi aveva imposto di diventare adulta subito e non riuscivo a comprendere perché all’improvviso, davanti a me, c’erano tante, tantissime cose di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, a cominciare dal cibo. Quando entrai per la prima volta nella mia prima casa, fui sommersa da giocattoli, peluche e pensieri di tanta gente che si presentava a me definendosi zia, nonna, cugino. La mia cameretta era grande e bella, forse troppo. Tentai, giorni dopo, di incendiarla. Non riuscivo a capacitarmi. Io, grigia e malnutrita. Io, piena di colori e benessere. Di notte piangevo, mi mancavano i mie amichetti, e un po’ mi sentivo in colpa. Loro erano rimasti lì».
GLI ANNI DELL’ANORESSIA- Susanna, crescendo, ha apparentemente tutto ciò che si può desiderare, ma non le basta, perché c’è sempre in lei un senso di abbandono che la perseguita e che le ricorda “ chi non è “, allontanandola dalla possibilità di essere felice. E’ chiusa, introversa, sempre sulle sue. Ha pochi amici. A ventisette anni, molla la presa e si abbandona. Sprofonda nel tunnel dell’anoressia. «Mi chiudevo sempre di più- confessa- non mi accettavo, a tratti non mi riconoscevo. Il pensiero di essere stata abbandonata, “gettata”, mi tormentava, e questo incideva su tutti i miei rapporti. Preferivo non costruirne, la paura di poterli perdere era per me, inaccettabile. Mi sentivo sempre fuori luogo e fuori tempo ed è per questo che nella mia vita c’è stato un giorno esatto che ha segnato l’inizio di due anni duri di malattia. Uno svenimento, un’ambulanza e un ricovero, è tutto ciò che ricordo prima della mia rinascita».
RITORNARE A VIVERE-Giorni interminabili di medicine, cure, percorsi psicoterapeutici, pazienza, coraggio, ma alla fine Susanna ce l’ha fatta. Oggi, a quasi trent’anni, progetta e racconta della sua nuova esistenza. Il fidanzato Mario, con cui l’anno prossimo si sposerà; una seconda laurea in Psicologia; un viaggio con i suoi genitori; prendersi cura di lei stessa; avere figli e adottare due bambini. «Conoscere da vicino la morte, ti aiuta a capire che non c’è nulla di più bello della vita, qualunque ti sia capitata».
di Carmela Cassese