Ospiti decisamente indesiderati, della settimana della moda parigina, sono stati gli attivisti di Extinction Rebellion, movimento internazionale per la lotta alla crisi climatica, che, durante la sfilata di Louis Vuitton al Passage Richelieu del Louvre, hanno fatto irruzione sulla passerella armati di striscione, con su scritto “Consumismo = estinzione”. Un gesto di dissenso per mettere in guardia un mondo per natura superficiale dalle conseguenze che il secondo comparto produttivo più inquinante, dopo l’Oil&Gas, ha sull’ambiente e sulle risorse naturali. Uno sgradevole ritorno alla realtà per i tanti appassionati dell’alta moda presenti in sala e per lo stilista Nicolas Ghesquière che, al termine della sfilata, ha percorso la passerella scortato dai bodyguard. Per capire come la risposta ad una necessità fisiologica sia finita per diventare una minaccia alla nostra sopravvivenza, iniziamo col fare un passo indietro.

Da quando esiste l’uomo sulla Terra esiste la moda. I primi ominidi davano prova della loro evoluzione, rispetto al resto del regno animale, nel modellare e maneggiare utensili per potenziare le proprie capacità, alla ricerca di soluzioni innovative per soddisfare i propri bisogni. Insieme alle frecce e alle lance, per cacciare e per difendersi, l’uomo preistorico ha sentito ben presto l’esigenza di coprirsi, per proteggersi dai pericoli ambientali, dal freddo, dal sole, dagli insetti. Quasi subito, la ragione strettamente utilitaristica del vestiario si è vista accompagnare da una nascente funzione simbolica. Le pelli di animale indossate identificavano l’uomo con esso, esaltandone la forza e l’abilità nella cattura. Già allora, la nudità e l’imperfezione del corpo rendevano maggiormente percepibile la diversità, generando nel singolo inadeguatezza nell’approcciarsi a comunità di individui che già usavano vestirsi. Dall’Età del rame fino ai tempi nostri, abbiamo accresciuto, affinato e periodicamente attualizzato il desiderio di identificarci con gli indumenti che indossiamo, mostrando per mezzo di essi la nostra identità. La paura dell’esclusione e la necessità di una comunicazione non verbale di sé, accomunano l’uomo moderno all’uomo delle caverne. L’evoluzione e l’incremento esponenziale di questa necessità nei secoli, ha portato, in una società di stampo consumistico come quella moderna, a raggiungere soglie di insostenibilità decisamente allarmanti. La crisi climatica provocata dall’inquinamento umano è da ricondursi ad una numerosa serie di cause e concause, riconducibili tutte al nostro stile di vita. La grande sfida per un pianeta più pulito, deve fare i conti con le nostre esigenze fondamentali, per le quali molto spesso è ancora imprescindibile l’uso delle risorse fossili. Interi comparti fondamentali per la nostra società come i trasporti, l’energia e la produzione industriale nel suo insieme, iniziano ad affrontare una lunga e dispendiosa fase di transizione ecologica, inevitabile, proprio perché non ne possiamo fare a meno. Per logica, in una fase di evolvente minaccia globale, ci si aspetterebbe che risultasse difficile contemplare l’utilizzo improprio della quota di inquinanti che possiamo ancora immettere nell’ambiente, prima che il cambiamento climatico diventi irreversibile. Invece, il comparto della moda è la seconda industria più inquinante al mondo, e non di certo per soddisfare solamente il primitivo bisogno di vestirsi. Il prestigioso posto sul podio conquistato dalla moda, a suon di pubblicità e testimonial, è un segnale poco incoraggiante sull’attenzione che il singolo e la società nel suo complesso hanno sul tema del cambiamento climatico. Le scelte del singolo, oggi, influenzano il futuro del pianeta più di quanto possa fare la politica nel suo insieme. I costi in termini ambientali della nostra vanità non si limitano al solo inquinamento. Il mondo del fashion è responsabile di più del 20% dello spreco mondiale di acqua, è responsabile del 24% dell’uso di insetticidi e dell’11% di tutti i pesticidi. Solo l’1% dei vestiti viene riciclato; quasi il 90% finisce in discarica. Parliamo di un’industria da quasi 3000 miliardi di dollari, giustificata in larga parte da scelte di tipo consumistico e non utilitaristico. Mentre la minaccia avanza e gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire in tutto il Mondo, causando distruzione, carestie, crisi ambientali e sociali, che impattano sempre di più sull’economia, dal 2000 ad oggi il numero dei vestiti acquistati è aumentato del 60%. Il dato è scoraggiante, ma rimane il fatto che appellarsi alla coscienza individuale è la strada più impervia ma indubbiamente la più risolutiva; solo cambiando le nostre abitudini di consumo possiamo garantirci la prosecuzione della vita su questo Pianeta. Si tratta di una scelta individuale, fondata sulla consapevolezza di quello che la scienza ci dice, sulla base dei numeri e dei grafici, e la volontà di agire secondo un’istinto più antico della vanità, lo spirito di sopravvivenza. L’impulso ancestrale di appartenere in maniera riconoscibile ad una società è radicato in noi dalla notte dei tempi, è difficile affrancarsi dalla paura dell’esclusione. La moda quindi, soltanto, può essere la cura per se stessa. Non per darci contezza della nostra diversità ma per avvolgerci sotto la calda coperta della massa, direzionata verso obbiettivi più nobili. In altre parole, è necessario che l’approccio etico diventi di moda.

di Valerio Orfeo

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