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La fragilità dei potenti e l’urgenza di tornare all’essenziale L’EDITORIALE

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Un fuori onda, catturato quasi per caso, ci consegna una confessione sorprendente: Putin e Xi Jinping parlano del sogno dell’immortalità. Non di politica estera, non di armi, ma del desiderio di sfidare la morte. Una scena che dice molto più di tanti comunicati ufficiali: i due leader che decidono la sorte di interi popoli rivelano, nel sottofondo, la loro stessa fragilità. L’ansia di non morire, di trattenere a ogni costo la vita.
È l’immagine di un tempo paradossale: mentre i cieli si riempiono di droni e missili, mentre l’Ucraina e la Palestina bruciano, mentre guerre dimenticate divorano silenziosamente interi continenti, si investono miliardi in tecnologie che promettono longevità, corpi bionici, coscienze digitali. Si cerca di allungare quantitativamente la vita ma non di allargarla nella sua qualità. È il trionfo dell’ansia travestita da progresso, della corsa al dominio per riempire il vuoto dovuto alla mancanza di senso e di significato.
Questo è il punto. Abbiamo confuso la preservazione della vita con la cura dell’esistenza. L’immagine con la sostanza. Mentre corriamo dietro all’ultimo farmaco snellente dentro siamo stanchi, depressi, disorientati. Mentre cerchiamo di vivere cent’anni, fatichiamo a reggere un giorno senza ansia e angoscia. La verità è che il nodo non è allungare il tempo, ma abitarlo. E questo si fa solo ripartendo dall’interiorità. Non c’è tecnologia che sostituisca il silenzio interiore, non c’è algoritmo che curi il vuoto dell’anima. La qualità della vita non si misura in giorni guadagnati, ma in profondità vissute. E qui si gioca la vera sfida educativa, politica e sociale del nostro presente.
Educativa, perché accompagnare le nuove generazioni non significa renderle efficienti, ma aiutarle a interrogarsi sul senso. Politica, perché il compito di chi governa e amministra – uno stato come una città o una regione – non è solo gestire l’economia, ma custodire l’umano, dare spazi di pace e di giustizia. Sociale, perché una comunità sana non è quella che produce più velocemente, ma quella che si prende cura della vulnerabilità dei suoi membri.
C’è un’urgenza di interiorità, che non è fuga dal mondo, ma ritorno all’essenziale. In un tempo che ci vuole iperconnessi, la vera rivoluzione è fermarsi, ascoltarsi, imparare ad abitare la propria fragilità. È da qui che può rinascere una cultura della pace: solo chi sa custodire se stesso senza fuggire può custodire l’altro senza aggredirlo. Forse la vera immortalità non è sopravvivere biologicamente a oltranza, ma lasciare tracce di umanità autentica nei giorni che ci sono dati. E questo non lo insegneranno né le macchine né i potenti, ma la capacità di tornare a vivere dentro, prima ancora che fuori.
di Gennaro Pagano, Psicologo e Psicoterapeuta