“Tempesta Madre” di Gianni Solla, edito da Einaudi, più che un romanzo è un groviglio intricato e mai fino in fondo districabile di emozioni forti, parole, pensieri e relazioni che legano un figlio, Jacopo, ad una madre decisamente fuori le righe e totalizzante e ad un padre che solo in apparenza resta sullo sfondo.

È un affresco tragicomico e tagliente di una famiglia sghemba, narrato dal punto di vista di un bambino che parla poco e scrive tanto rinchiudendosi nella cella frigorifero della macelleria di suo padre la cui unica raccomandazione è di cercare di non morire “altrimenti chi la sente a quella”. È la storia tenera della crescita non tanto anagrafica, quanto emotiva, di un bambino e dei suoi genitori con i quali è chiamato a fare i conti per tutta la vita. Ed in fondo è una storia dove ognuno di noi può trovare qualcosa di sé.

Comunicare il Sociale ha intervistato l’autore.

La famiglia è lo snodo centrale di questo romanzo. Perché un libro che racconta la famiglia?

“È una domanda che mi viene rivolta spesso. La famiglia è il posto più pericoloso dove nascere perché non sempre vieni alla luce in un luogo fisico e mentale dove sei costantemente desiderato e accudito. Nasciamo da due genitori che come tutti gli esseri umani sono imperfetti, carichi di aspettative personali, frustrazioni, dolori, e non è detto che pur volendoci bene sappiano prendersi cura di noi. La relazione genitoriale è un qualcosa di molto complesso e stringerla nella dicotomia successo-fallimento è inutile oltreché riduttivo”.

Guardando da lontano possiamo dire che nel tuo romanzo consideri la famiglia un’istituzione imperfetta, ma con un suo personale equilibrio interno?

“Si, decisamente. Certo, è importante anche capire cosa sia l’equilibrio. All’interno del libro faccio un esperimento: utilizzo una madre e un figlio che sono in simmetria, cioè sullo stesso livello, e che ragionano come fossero una coppia. Dal punto di vista sociale il rapporto simmetrico apre uno scenario su quelle che sono le imperfezioni di una famiglia, le sue sbavature, e sulla più ampia riflessione della famiglia non più come base delle sicurezze e dell’amore, pur rimanendo in ogni caso una cosiddetta cellula della società”.


Il tuo libro parte dalla fine: il ricovero della madre di Jacopo, ormai adulto, in ospedale dopo essere stata ritrova a vagare per il quartiere vestita da sposa. Cosa succede da questo evento in poi?

“Intanto succede che la famiglia si ricompone, quanto meno in termini di prossimità perché nessuno dei tre componenti vive l’uno vicino all’altra. Ed è questo per Jacopo il preciso momento della tempesta, l’evento che lo costringe al ritorno non solo e non tanto fisico verso la madre e il padre. Il pretesto che lo costringe irrimediabilmente a mettere in ordine il passato”.

Quindi Jacopo chi è?

“Jacopo è un personaggio per molti versi inadeguato ma forte e che non si sottrae al dolore perché lo considera un elemento necessario per la crescita. Jacopo affronta la sfida, magari la perde, soccombe, ma ha il coraggio di affrontarla”.

Il segno distintivo della tua scrittura è quello di essere tragicamente comica. Perché proprio questo registro narrativo?

“In realtà è che non riesco a non sentire la seduzione dell’umorismo e, a ben vedere, il comico e il tragico nella vita si trovano sullo stesso asse, solo posizionati su poli opposti. Poi ha una potenza deflagrante inserire elementi drammatici in un contesto comico e viceversa perché nessun personaggio è solo buono o solo cattivo, soltanto triste o divertente”.

di Ornella Esposito