Così decido di agire perché ho paura. Ho paura di restare solo nel lock-down, rinchiuso con la mia colpa e con la Fine di cui sono la causa, come ciascuno di noi, nessuno escluso. Servono braccia e poesie, e non chi pensa lontano dal fronte”.

Questo l’incipit dello scrigno di piccole perle che è il libro di Filippo Kalomenìdis (edizioni Homo Scrivens), un diario poetico “di guerra”, quella in cui viviamo da quando il virus mortale è uscito allo scoperto affiancando alle vecchie, nuove povertà, e quella da cui siamo affetti sin dalla notte dei tempi, il potere.

E seppur suona maledettamente retorico, è altrettanto vero che sono i momenti di buio pesto, di crisi, che aprono varchi di luce verso i cambiamenti, come è successo all’autore, figlio, nipote e pronipote di profughi rifugiati, condizione dal peso specifico nelle sue parole scritte.

Filippo Kalomenìdis, sceneggiatore da un ventennio, inserito nel jet-set della cinematografia, si “risveglia” nei primi giorni di Marzo 2020 in una Bologna spettrale, avvolta dalla paura del covid-19 e delle sue conseguenze – la povertà e l’emarginazione – e decide di chiudere con la vita del giorno prima e mettersi in viaggio: “vado a prestare servizio come volontario per l’emergenza e scrivo un diario del 2020, preghiere che si uniscono alle molteplici preghiere”. Basta scrivere per il menzognero cinema industriale.

Un viaggio, dalla direzione storta, ai margini di una società opulenta per ritrovare l’essenziale che Antoine de Saint-Exupèry diceva essere “invisibile agli occhi”. Agli occhi poco vivaci. Quelli di Filippo Kalomenìdis sono invece ricettivi e dolenti, senza via di fuga sul retro. Sono un fermo immagine sul mondo di chi è tagliato fuori dal mondo, partendo dai disagiati dei quartieri Santa Rita e Barca e i senzatetto, fino ad arrivare ai rifugiati dell’isola di Lesvos.

La direzione è l’alba che esce dagli occhi nostri, la direzione è storta come le braccia nostre. Carichiamo su un camion medicine che non guariscono e le portiamo in un orizzonte che non possiamo guardare dritto. Nessuno sa chi sia l’altro, nessuno sa una parola da dire, né sapremo mai perché ci diamo coraggio. Conosciamo però il peso di ogni cassa e questo mattino grande e abbandonato, e questi occhi nostri che si sorridono nudi”.

Il tentativo dell’autore è di attraversare e trasformare il dolore del mondo (compreso il suo) in poesia, in parola che addolcisce e sferza, che scotta come il fuoco e lenisce come la cenere. I versi di Kalomenìdis sono un coltello di miele che fende il petto e raggiunge un cuore violaceo donandogli nuova linfa vitale.

Sì, perché nelle liriche racchiuse tra queste pagine si sente e si tocca la carne viva dell’Uomo, quella con cui l’autore soprattutto si misura nel campo di Karà Tepè a Mytilene, sull’isola greca di Lesvos, dove sono transumati i migranti da anni tenuti sotto sequestro nella struttura di Moria, incendiatasi nel settembre del 2020. Ed è proprio in questo preciso punto – complice sicuramente la condizione irreversibile dell’autore di essere un migrante –  che il reportage lirico sfiora punte di grande intensità emotiva:

Le navi torneranno in porto e la schiuma del mare saprà ancora di zucchero salato. La sera pero, su un su un muro del campo, un ragazzo scriverà « مینک یم یگدنز» Ognuno dei soldati penserà siano sgorbi incomprensibili e nessuno di loro capirà cosa lo attende nell’ultimo dei giorni. In parsi quei segni dicono decisi: «Noi viviamo».

Ecco il senso della “Direzione è storta”: ci mostra la bellezza di chi vive ai margini, di chi senza nemmeno rendersene conto sparge petali di speranza sopra un Occidente narcotizzato e colpevolmente complice.

di Ornella Esposito