ROMA. Sono ancora poche le aziende italiane che impiegano lavoratori disabili, ancora meno quelle che si rivolgono a lavoratori con disturbi psichici. Chi lo fa, però, è soddisfatto.  E’ questo, in sintesi, il quadro che emerge dall’indagine dell’Isfol realizzata nell’ambito del programma Pro.P. in nove regioni Lazio, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Campania, Marche, Sardegna e Veneto. Alcuni dati sono stati presentati  nel corso del convegno nazionale “Si può fare in azienda. Aziende, lavoro e disturbo psichico”. L’obiettivo è quello di realizzare un identikit delle aziende “virtuose” capaci di coniugare l’inserimento e il mantenimento del posto lavorativo alle persone affette da disturbo psichico.
MONITORAGGIO – L’indagine è stata strutturata in due parti: la prima, di tipo quantitativo, è stata realizzata mediante la somministrazione del questionario a 1500 aziende, per rilevare gli atteggiamenti e i comportamenti dei datori di lavoro nei confronti dell’inserimento lavorativo delle persone disabili; la seconda, di tipo qualitativo, si è svolta con 26 interviste a datori di lavoro che hanno inserito nelle loro aziende persone con disturbo psichico, per esaminare le dinamiche, le necessità, le possibilità e le criticità che accompagnano il percorso di inserimento.
IL DATO – Su un campione di mille aziende esaminate, il 6,2% occupa una persona disabile, che però solo in pochi casi, solo lo 0,6% riceve una retribuzione. Appena il 2,2% dei lavoratori disabili impiegati ha un disturbo psichico. Il dato migliora però nello studio del secondo campione dato da 495 aziende con oltre 15 dipendenti  dove la quota di imprese che adempiono all’obbligo arriva al 45,5%. Per quanto riguarda le imprese virtuose, queste sono collocate soprattutto nel centro e nel nord-ovest (54%), svolgono attività industriali (58%) e hanno oltre 250 addetti (64%). Il 50% degli intervistati ritiene valida e reciprocamente arricchente l’esperienza di lavoro realizzata con i lavoratori disabili psichici. Inoltre, contrariamente a quanto si crede, l’esperienza effettuata non implica alcun cambiamento nella organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda.

di Francesco Adriano De Stefano

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