L’argomento è spinoso, la strada da imboccare per fare chiarezza è scivolosa e piena di insidie e la (non) comunicazione sui social molto spesso crea ancora più caos. La guerra talvolta parte dalle parole, dal cattivo uso che se ne fa, dalla mancanza di conoscenza dei termini che si utilizzano. Sionista, antisionista, antisemita, ebreo, islamico, palestinese. Quante volte al giorno ascoltiamo o leggiamo queste parole, e quanto le comprendiamo per davvero?
Il conflitto israelo-palestinese in questi mesi sta sconvolgendo nuovamente il Medio Oriente. Notizie drammatiche si susseguono e, inevitabilmente, gli effetti si fanno sentire anche sul web attraverso i social che fanno da cassa di risonanza alle opinioni più disparate, anche da un punto di vista “locale”. Proprio in questi giorni una piccola guerra si è scatenata, tra i leoni da tastiera e non solo, in seguito alla polemica suscitata dalla presa di posizione di una ristoratrice di Santa Chiara a Napoli che ha messo alla porta una comitiva di israeliani che avrebbe esaltato le azioni di forza del governo Netanyahhu nella striscia di Gaza.
Andare a smembrare tutte le componenti della marmellata del linguaggio quando viene infettato da mancanza di conoscenza, violenza e tuttologia è complicato visto che molto spesso la guerra – quella via social – viene combattuta senza conoscere le proprie armi, appunto le parole, il significato dei termini utilizzati per sostenere le proprie ragioni, creando sempre più confusione e gettando benzina sul fuoco della polemica.

A provare a fare chiarezza arriva in aiuto il professore di Sociologia del Mondo Arabo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Antonello Petrillo.

Innanzitutto, professore, qual è il significato della parola sionismo?

«Il sionismo è un movimento politico religioso nato nel XIX secolo che mirava a costituire in Palestina uno stato israeliano per accogliere gli ebrei dispersi nel mondo. Nasce con il risollevarsi dei nazionalismi nel mondo e al rigurgito dell’antisemitismo. Ma l’essere ebrei non coincide certo con l’essere sionisti».

Tornando alla vicenda dalla quale prendiamo spunto, è venuta fuori la parola “sionista”. Vogliamo chiarire? Chi è oggi un sionista?

«Non c’è alcuna offesa in sé nel termine “sionista”. L’errore a monte è che spesso l’antisionismo viene confuso con l’antisemitismo. Un ebreo non si sente offeso se viene chiamato sionista, magari non lo è ma non è questo il punto. Ad esempio, è un po’ come se dicessimo di qualcuno che è leghista e invece non lo è ma è appartenente a un altro partito politico. Il sionismo è un movimento che ha fondato lo Stato di Israele, ma che non coincide con l’essere ebreo. In definitiva essere ebrei ed essere sionisti non è assolutamente la stessa cosa».

A cosa è dovuta la confusione sul significato di questi termini?

«Innanzitutto perché fa comodo a Israele. Dire che se sei contro di me, contro i massacri di Gaza, contro il genocidio, contro la pulizia etnica sei automaticamente contro gli ebrei e quindi antisemita, fa comodo. Palesemente le due cose non coincidono. Infatti i nazisti erano antisemiti ma non antisionisti. E oggi molti dei governi che appoggiano Israele, compreso il nostro, sono filo-sionisti, ma non sono necessariamente immuni dall’antisemitismo».

Con la stessa chiarezza possiamo spiegare la differenza tra l’essere ebreo e l’essere israeliano?

«Essere ebreo è identificarsi con una cultura religiosa, non è essere etnicamente qualcosa di preciso perchè geneticamente non esiste l’ebreo. Gli ebrei nel corso del tempo si sono mescolati con tantissime altre popolazioni. Purtroppo l’ala radicale del sionismo contemporaneo rivendica, invece, una sorta di appartenenza etnico-razziale che non esiste. L’autoidentificazione si sviluppa soprattutto a seguito delle persecuzioni, cresce sicuramente quando papa Paolo IV nel 1555 istituisce i ghetti affermando che gli ebrei sono una razza a parte, il popolo che ha ucciso Cristo. Ovviamente, vivendo nei ghetti, essendo impossibilitati a uscire, a sposarsi con altre persone, gli ebrei hanno incorporato questa idea. Un po’ come, parafrasando e semplificando, il popolo rom, che geneticamente non esiste. Però un rom sente di far parte di quella particolare cultura. I nazisti, al tempo, andavano a chiedere ai rabbini chi fosse considerato ebreo e la risposta fu che erano da considerarsi ebrei tutti quelli che erano figli di madre ebrea. Un parametro che ha paradossalmente aiutato il Nazismo nella sua follia sterminatrice. Un paradosso tragico che si verifica ogni volta che una popolazione viene inferiorizzata. A un certo punto capita che ci si senta davvero ciò che gli avversari pensano di te, ti senti appartenente ad una razza. Ma gli ebrei non sono una razza, sono una cultura religiosa».

Ed essere israeliano, invece?

«Dentro Israele le razze esistono. Palestinesi a parte, gli ebrei orientali, i Mizrahim, che vivevano da sempre in Medio Oriente, sono stati oggetto di pesanti discriminazioni da parte dei “nuovi arrivati” europei, di cultura “europea”, gli askenaziti, insieme ai loro fratelli di pelle scura provenienti dall’Etiopia, i Falascia. Fino a tempi assai recenti nessuno di loro ha avuto accesso, per esempio, a cariche di governo. Un razzismo aperto tra ebreo ed ebreo dentro Israele, alla base anche della terribile crisi politica che il paese vive oggi».

Come si passa dalla posizione antisemita delle destre europee all’ammirazione dei governi di destra per Israele?

«Da quando le destre hanno ricominciato a prendere piede in Europa e in tutto l’Occidente ha fatto comodo nascondere l’antisemitismo, fatto di stereotipi che vedevano l’ebreo avaro, uccisore di Cristo eccetera, eccetera, mentre cresceva l’ammirazione per Israele, autentico modello per tutti coloro che auspicano politiche dure verso ciò che è diverso da noi e che avvertiamo come una minaccia (i migranti per esempio). Nel 2016 è arrivata la dichiarazione dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance, un’organizzazione intergovernativa) sull’antisemitismo, che fa sostanzialmente coincidere antisemitismo e critica al sionismo e allo stato di Israele».

Ma non è l’unica definizione di antisemitismo.

«Nel 2021 a Gerusalemme, duecento studiosi, in gran parte ebrei, si riunirono per rilasciare la Dichiarazione di Gerusalemme, nella quale si afferma che l’antisemitismo non coincide con l’avversione alle politiche di Israele, ma è un riproporre quegli antichi stereotipi legati agli ebrei. In definitiva non è che tutto il mondo ebraico, fuori e dentro Israele, sia concorde con le politiche del governo».

Ma cosa significa essere semiti?

«Essere semiti significa appartenere a una determinata popolazione che nasce in Medio Oriente. Semiti sono anche gli arabi, quindi attribuire l’antisemitismo al palestinese o a un siriano o a un libanese, è una cosa assurda. Quando leggiamo che un palestinese è antisemita perché è contro lo Stato di Israele è assurdo, perchè il palestinese è un semita. La stessa lingua araba è semita, esattamente come l’ebraico. Si fa una confusione enorme. Anche l’”islamofobia”, il nostro fastidio per i musulmani che vengono in Europa per sfuggire a fame e guerre, è – a rigore – una forma di antisemitismo. Gli ebrei che sono in Italia sono persone in genere integrate, spesso benestanti, sono come noi. Ma quelli che arrivano dal Maghreb o dalla Siria, poveri, somaticamente diversi da noi, ci fanno paura. L’islamofobia è un volto dell’antisemitismo perchè se la prende con un’etnia semita. Quindi far coincidere antisemitismo e antisionismo è una cosa sbagliatissima. Sull’antisionismo c’è un errore di fondo fatto quando l’Unione europea ha recepito la dichiarazione di Stoccolma dell’IHRA invitando i governi degli stati membri ad adottare leggi sulla base di tale dichiarazione. In pratica se io critico lo Stato di Israele sono antisemita per legge. Questo anche in Italia, anche se l’applicazione da noi è più blanda rispetto a paesi come la Germania o il Regno Unito».

di Nadia Labriola

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