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Istanbul, testimonianze dalla rivolta: «Vogliamo democrazia»

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IstanbulISTANBUL – C’è chi ha parlato di ‘protesta in difesa degli alberi’, ma a ben vedere dietro quello che sta accadendo in Turchia c’è molto di più. Tutto è iniziato il 31 maggio scorso, quando i primi manifestanti si sono riuniti in Piazza Taksim per impedire l’apertura di un cantiere che prevede la distruzione del parco Gezi e la creazione in loco di un centro commerciale e di una moschea. Da lì allo scontro con la polizia, accusata di aver usato la ‘mano pesante’ con i manifestanti, il passo è stato breve. La protesta si è estesa a macchia d’olio in tutto il paese, portando con sé un bilancio poco rassicurante. Quattro le vittime accertate. Più di duemila, secondo l’Associazione dei medici turchi, i feriti, tra cui alcuni poliziotti. Una situazione che ha suscitato apprensione anche nel ministro degli esteri italiano Emma Bonino, secondo la quale “l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia non può essere una risposta accettabile alle proteste”.
LE TESTIMONIANZE – Proteste che, del resto, non sembrano destinate a placarsi. Lo dimostrano le due testimonianze che abbiamo raccolto, diverse ma complementari. L’una viene da un ragazzo turco che studia in Italia, l’altra da una giovane italiana che vive ad Istanbul. Il primo si fa cassa di risonanza per i racconti di amici e conoscenti che della protesta sono i protagonisti diretti, la seconda ci dimostra che a scendere in piazza non sono solo i turchi, ma anche tanti, tantissimi italiani. Cihan, studente all’Università per Stranieri di Siena, ci riporta la lettera di Reha, suo collega dell’Università di Istanbul, che scrive: «Resisto perché non voglio più vivere in un paese in cui non si può fare nemmeno una domanda al primo ministro, in cui la polizia usa la violenza contro studenti, bambini, donne e anziani solo perché protestano. Resisto perché voglio che siano garantiti i miei diritti a casa, all’università e per strada».
LA STUDENTESSA ITALIANA – Valentina racconta invece di vivere «con grande sorpresa la situazione di Istanbul, perché le modalità di rivolta sono così variegate e largamente condivise da tutta la società, da sembrare quasi impensabili per un italiano. Sono sicura – nota con amarezza – che una cosa simile non sarebbe mai potuta accadere nel nostro paese. Tutta la città – continua la giovane italiana – alle nove si affaccia alla finestra con pentole e padelle, battendole per fare rumore e richiamare il popolo. A scendere in piazza sono gli schieramenti più diversi, dai kemalisti ai curdi, dai comunisti ai repubblicani. Ieri sera a Piazza Taksim c’erano anche delle ragazze velate. Ma la vera forza sono i giovani non appartenenti a nessun movimento. Pensavo che la rivolta si stesse per arenare ieri mattina, ma poi sono usciti i punti del “cosa vogliamo”, il manifesto dei ragazzi di Gazi Park».
LA MOBILITAZIONE – Quello che i turchi vogliono è la democrazia, che per loro significa rispetto del laicismo del paese. Piazza Taksim, già al centro di scontri e morti negli anni 70, è appunto il centro del laicismo e della libertà turca. Il progetto di costruire un centro commerciale e una moschea proprio li, è un preciso attacco alle radici turche laiche per fare spazio al nuovo islam di stampo arabo. Se a questo si aggiunge una forte campagna contro l’alcool e una decisa limitazione dei costumi sociali, le ragioni delle proteste sono chiare. Al di là della straordinaria partecipazione e del coinvolgimento, viene da chiedersi se Valentina, come tanti altri, non abbia paura a rimanere ad Istanbul. «Le reazioni della polizia ora sono meno violente, ma i primi giorni sono state infernali. La paura rimane, ma non mi sento in pericolo e non lascerò questa città come tanti amici e parenti mi stanno chiedendo di fare. Penso che continuerò ad andare in piazza, con cautela e anche rispetto, perché in ogni caso non è la mia rivolta ed è giusto che in prima linea ci siano i turchi. Essere testimone di una protesta simile, però, è molto formante, anche per noi che pensiamo di vivere in paesi veramente democratici».

di Silvia Aurino

 

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