Le grandi differenze geografiche, strutturali, economiche e sociali tra le regioni italiane da diversi anni rendono particolarmente delicata e discussa la questione relativa all’autonomia differenziata. Fioccano le paure e i contrasti, nonostante le riassicurazioni del Governo che sottolinea a più riprese che non si vuole dividere il Paese, né favorire Regioni che già viaggiano a velocità diversa rispetto alle aree più deboli dell’Italia.  In sintesi, la finalità perseguita dal Governo è quella di «dare seguito al processo virtuoso di autonomia differenziata già avviato da diverse Regioni italiane secondo il dettato costituzionale e in attuazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà, in un quadro di coesione nazionale».  L’esecutivo ha impostato il processo di attuazione del regionalismo differenziato su due direttrici: quella del procedimento di determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione; quella della presentazione alle Camere di un disegno di legge per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Intanto, la società civile si è mobilitata e si sta mobilitando, in maniera capillare, per informare e creare consapevolezza in modo da far leva sul Parlamento e ritrovare una capacità politica di elaborazione di una visione prospettica, più tesa all’interesse generale di una nazione unita, che rispetti e valorizzi le diversità.

 

Per capirne di più, abbiamo intervistato due esperti, Luca Gori e Marco Musella 

 

Luca Gori è ricercatore in diritto costituzionale. E’ stato membro del gruppo di lavoro, costituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, su delibera del Consiglio nazionale del terzo settore, sulla disciplina dei rapporti fra Pubblica amministrazione e Terzo settore. Attualmente è componente del Comitato scientifico per la promozione dell’economia sociale nei rapporti internazionali del Ministero del Lavoro d delle Politiche sociali.

 

I livelli essenziali delle prestazioni omogenei, finanziati ed esigibili in ogni parte d’Italia, sono il presupposto fondamentale per un sistema di welfare inclusivo e universalistico, fondato sul riconoscimento di diritti e pari opportunità per tutte le persone. Una definizione attesa da ben 22 anni può realisticamente concretizzarsi in pochi mesi? 

L’art. 117, secondo comma, lett. m) Cost. attribuisce alla competenza legislativa dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Credo che sia necessario interrogarsi, preliminarmente, sul significato di questa espressione. Nell’interpretazione che si è largamente affermata è necessario ricondurre a ciascuno dei diritti civili e sociali previsti in Costituzione – nella Costituzione vivente, vorrei dire – una serie di prestazioni che rendono quei diritti effettivi. Già qui si registra un primo punto problematico: le prestazioni possono essere rese in una pluralità di modalità (direttamente dallo Stato; attraverso un meccanismo concessorio o accreditamento a favore di privati; attraverso attività positive o astensioni, ecc.) e non sono tutte già codificate o codificabili in termini assoluti (ad es., le prestazioni riferite al diritto all’abitazione potrebbero essere diverse da territorio in territorio, in relazione ad una pluralità di variabili). All’interno di quelle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, poi, logicamente si dovrebbe individuare una soglia (il livello essenziale) al di sotto della quale si compromette l’effettività stessa di quel diritto. In termini logici, cioè, vi dovrebbe essere una graduabilità della prestazione: al grado cui corrisponde il “livello essenziale”, la prestazione dovrebbe essere garantita su tutto il territorio nazionale, con un finanziamento certo e con una tutela per il cittadino. Il modello della legge n. 42/2009 in tema di federalismo fiscale assumeva esattamente questa prospettiva, in un quadro normativo nel quale, però, i livelli essenziali non erano stati ancora definitivi complessivamente (l’attuazione a regime del federalismo fiscale slitta di anno in anno, infatti). Attualmente, la legge di bilancio per il 2023 ha avviato un percorso di definizione dei LEP, che culminerà con l’adozione di DPCM di ricognizione dei LEP vigenti (art. 1, comma 793 ss., legge n. 197/2022).  L’elemento di maggiore difficoltà è costituito dal fatto che il legislatore, nel corso di oltre vent’anni di legislazione del Titolo V della Costituzione, non ha definito i livelli essenziali. Si può dire che il Parlamento non ha adeguato il proprio metodo della propria legislazione e l’organizzazione dell’amministrazione non ha tenuto conto di questa dialettica fra esigenza unitaria/possibile differenziazione, con l’eccezione (probabilmente) del solo settore sanitario (i LEA in sanità sono stati definiti, da ultimo, con il DPCM 12 gennaio 2017). Si è in presenza, in questa fase, di una evidente accelerazione, determinata dall’esigenza di dare attuazione al c.d. regionalismo differenziato. Si avverte cioè che il presupposto per differenziare l’autonomia spettante alle diverse Regioni debba essere la definizione di un tessuto unitario di “livelli essenziali” di prestazioni. Ci sono quindi queste due tendenze che spingono verso due direzioni e che richiederanno un lasso congruo tempo ed una guida “coordinata” dei due processi, che non saranno – a mio giudizio – brevissimi. L’uno sta alimentando l’altro ed è necessario leggere in due percorsi (LEP e differenziazione) in parallelo.

In che maniera può essere scongiurato il “regionalismo delle disuguaglianze” e quali garanzie per la coesione per un Paese già segnato da profondi divari territoriali? 

Una premessa. Il regionalismo delle diseguaglianze è già una realtà di fatto, pur in un contesto giuridico-costituzionale nel quale le diverse Regioni a statuto a ordinario hanno il medesimo regime. Quindi, la domanda da porsi è, probabilmente, se il regionalismo differenziato non finisca per “cristallizzare” il regionalismo delle diseguaglianze o, addirittura, per aggravarlo. Questa è la prospettiva corretta nella quale porsi. Non mi pare corretto ritenere che oggi ci sia un quadro omogeneo che il regionalismo differenziato rischierebbe di compromettere.  Quali percorsi per evitare che ciò avvenga? Da un lato, il regionalismo delle diseguaglianze già presente dovrebbe essere contrastato oggi con interventi di perequazione ordinaria e straordinaria, così come richiesto dall’art. 119 Cost., e con un equilibrato passaggio al sistema dei fabbisogni standard per i diversi livelli di governo.  Non si deve dimenticare, in ogni caso, che il regionalismo si fonda su un certo tasso di “differenziazione”: il regionalismo, infatti, implica che, pur nel quadro definito dalla Costituzione e dallo Stato, un certo tasso di autonomia residui in capo alle Regioni per poter compiere scelte di policies per lo sviluppo e la coesione dei territori. Senza questo tasso di autonomia, il regionalismo non ha senso. Si avrebbe un mero de-concentramento di funzioni dal centro, ma non autonomia. Su questo è bene intendersi: la “differenziazione” è un valore, in una forma di stato regionale. E’ il riconoscimento delle specificità, delle vocazioni, delle caratteristiche proprie di un territorio. Questo è uno degli assi portanti della riforma costituzionale del 2001.  Nel corso degli anni della crisi economico-finanziaria si è assistito al più grande accentramento di poteri legislativi e amministrativi, nonché di controllo della finanza dal centro. Il giudizio condiviso è che, alla mortificazione del ruolo delle Regioni, non sia corrisposto una maggiore efficienza o efficacia, con un contenzioso costituzionale letteralmente esploso. Quasi per “reazione”, oggi il “pendolo” si è spostato lungo l’asse di un riconoscimento di maggiore autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria. L’oscillazione di questo ideale pendolo è uno dei problemi principali del regionalismo italiano: a “fiammate” regionaliste sono seguite stagioni di “grande freddo”, in un contesto nel quale gli enti locali sono stati poco valorizzati e la loro riforma non portata a compimento (si pensi alla penosa vicenda delle Province). La mia chiave di lettura è che oggi le Regioni italiane (o meglio, una parte di esse più avanzata economicamente), cerchi nell’intesa bilaterale con lo Stato – che è alla base della differenziazione così come delineata dall’art. 116, terzo comma, Cost. – la garanzia di una “posizione” che non sia costantemente rimessa in discussione e che attribuisca spazi di autonomia certi sia sotto il profilo dell’autonomia normativa, dell’autonomia amministrativa e di quella finanziaria. Equivale a dire che ogni Regione cerca un “tavolo a due” con lo Stato. Non si può leggere le vicende attuali senza tenere conto di questa evoluzione più recente.  Posto che l’art. 116, terzo comma, Cost. in tema di differenziazione è in Costituzione dal 2001, a me pare un elemento di “garanzia” che, finalmente, oggi si discuta di una legge-quadro di sua attuazione, rinunciando all’idea che la differenziazione si possa fare direttamente, ciascuna Regione negoziando in autonomia col Governo (come è avvenuto fra la fine della XVII legislatura col Governo Gentiloni e l’inizio della XVIII legislatura col Governo Conte – I).  Certamente, questo modello di contrattazione richiede istituti forti posti a presidio dell’unità nazionale e, in particolare, degli istituti di perequazione. Su questi aspetti il dibattito è meno evidente, ma è comunque presente, specialmente fra gli addetti ai lavori. Si riflette, oggi, sul fatto che alcune funzioni – pur previste dalla Costituzione – non siano trasferibili, ma che debba esservi una sorta di “limite implicito” alla differenziazione. Ad es., sulle norme generali sull’istruzione, è evidente che i margini di differenziazione sono stretti; così come sulla giustizia di pace. Personalmente, riterrei che uno studio materia per materia, per le funzioni che ciascuna di esse implica, potrebbe aiutare a de-ideologizzare il dibattito ed a impostare correttamente la dialettica fra differenziazione /omogeneità in grado non solo di scongiurare nuove diseguaglianze, ma forse di invertire la tendenza di quelle che già ci sono.

 

 

Marco Musella è professore ordinario di economia politica presso l’Università Federico II di Napoli dal 1 novembre 2002, insegna oggi Economia Politica nei corsi di laurea magistrale di Managment. del Patrimonio culturale e di Filosofia

L’Italia è un treno che corre a due velocità, dove gioca un ruolo fondamentale la questione delle Autonomie locali, schiacciate dal neocentralismo regionale, con la debolezza dei Comuni, l’inadeguatezza delle Province, delle Città metropolitane e di Roma capitale. L’autonomia differenziata sembra voler dare una prospettiva di maggiore coesione sociale per ridurre i divari territoriali, semprechè il Governo lavori insieme alle Regioni e agli Enti locali con l’obiettivo di far crescere tutto il Paese. Quale il suo parere in merito?   

Innanzitutto una premessa: l’economista che parla di norme aiuta, forse, a comprenderne la coerenza con il contesto in cui si inseriscono e con la sua evoluzione possibile e, al tempo stesso, aiuta a capirne l’efficienza rispetto ai risultati attesi sia in termini di come vengono incentivati comportamenti coerenti con gli obiettivi desiderati sia in termini di uso corretto delle risorse. Si tratta, come è evidente, di tematiche complesse ed è importante che l’economista accetti il confronto con altri studiosi e non abbia la pretesa di essere il possessore di strumenti di analisi migliori degli altri. Egli non è mai un interprete delle norme, anche se può contribuire a comprenderne il senso; ed è più che mai evidente che altri scienziati sociali sono indispensabili per dare risposte più complessive alle domande. Voglio anche dire che se non bastano gli economisti neanche ci si può accontentare dei soli giuristi. Dal mio punto di vista, ad esempio, la questione della storia dei divari territoriali e del loro aggravarsi a seguito dell’introduzione dell’Autonomia differenziata è stata troppo enfatizzata, perdendo di vista che il nocciolo della questione è più l’unità del Paese e la perdita di peso ulteriore della dimensione “Italia” nella coscienza collettiva, e quindi nella politica e nell’economia, che l’aggravarsi (probabile, ma qui le previsioni richiederebbero qualche elemento storico, politico e culturale in più rispetto a quelli messi in campo) del divario tra Nord e Sud; un divario, se ci riflettiamo attentamente, che va avanti da un po’ di tempo, anche nelle sue dinamiche di acutizzazione, per ragioni che pure andrebbero approfondite meglio, superando logiche di pura lamentela affidate troppo spesso a chi sul Sud lucra soldi e potere. Io ritengo che la questione più preoccupante sia affidare a entità istituzionali senza storia – e che, francamente, non mi sembra abbiano brillato per efficienza ed efficacia nella loro azione, anche negli ultimi anni – spazi e potere ulteriori sacrificando, invece, ancora una volta realtà locali di dimensione minore, più vicine ai cittadini e ricche di identità storico-culturale assai maggiori. Quando poi penso che una forte spinta a questa autonomia differenziata a dimensione regionale venga da un egoismo fiscale, con il quale neanche i governatori regionali hanno fatto i conti fino in fondo, temo che ci stiamo incamminando su una strada di maggiori conflittualità sociali, a dimensione anche geografica, ma non solo, che le nuove Regioni avranno più difficoltà a gestire e che lo Stato centrale o osserverà da lontano senza intervenire o finirà per affidarne la soluzione ad azioni scomposte e repressive. Poi, se la storia andrà in questa direzione, faremo tutti i conti, al sud come al nord, con nuovi scenari dentro i quali leggere in modo nuovo opportunità e minacce e fare le nostre scelte individuali, sociali e politiche.

 

Tra le 23 materie di legislazione concorrente del testo costituzionale, approvato 22 anni, troviamo la ricerca scientifica e tecnologica, la cultura e l’ambiente, le casse di risparmio e gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Quali i rischi da scongiurare per non aggravare il divario del nostro Paese?

Ad esser sincero penso, anche qui da economista con studi sul diritto risalenti ad alcuni decenni fa, che l’idea della competenza legislativa concorrente non aiuti la chiarezza, inquini inesorabilmente la gerarchia delle fonti e, quindi, la certezza del diritto, dando minore efficacia al sistema delle regole che guidano la nostra vita concreta, sia a livello di istituzioni che di singoli. Questo, però, sarebbe un lungo discorso che ci porterebbe fuori strada, anche se non dobbiamo ignorare che l’Autonomia differenziata proposta dall’attuale Governo e da alcune Regioni si inserisce in un quadro di evoluzioni normative confuso (vedi quantità di ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti di attribuzione) e, almeno per me, è difficile credere che contribuirà a semplificarlo. È chiaro, poi, che alcune materie sembrano già oggi attraversare le fratture in atto nel Paese – tra sud e nord, tra città e campagna, tra aree interne ed aree costiere – e l’ulteriore assottigliarsi della dimensione nazionale delle leggi che le regolano avrà l’effetto, almeno in una prima fase, di accentuare distanze e separazioni. Per ciascuno degli esempi proposti nella domanda si può immaginare conseguenze del tipo che dicevo con l’aggravante che vi saranno veri e propri tentativi di colonizzazione che i più attrezzati proverranno a realizzare a danno dei territori e dei gruppi più deboli. Su questo bisognerà costruire una resistenza maggiore di quella oggi in atto (perché i fenomeni di cui parlo sono già ampiamente in atto) e resistere significherà sollevare barriere. Faccio solo l’esempio delle casse di risparmio; già oggi lo squilibrio tra aree è difficile da accettare anche perché vi è un drenaggio di risorse finanziarie che viaggia dalle aree deboli alle aree forti ed è difficile credere che l’autonomia differenziata invertirà questa tendenza; resisterà richiederà di alzare barriere, ma Unione europea e Stato nazionale lo consentiranno? Quali conflitti nasceranno?

di Giovanna De Rosa

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