Bullismo e cyberbullismo sono due facce della stessa medaglia, ma i comportamenti minacciosi messi in atto con l’utilizzo delle nuove tecnologie possono risultare ancora più pericolosi perché capaci di scatenare dinamiche anche più perverse e gravide di conseguenze di quelle reali. Secondo recenti stime, nel 2023 in Italia sono stati trattati 291 casi di cyberbullismo, un trend in crescita negli ultimi anni: più in generale, circa il 20 per cento degli studenti di scuola media riferisce di essere stata vittima di bullismo. Si tratta di un fenomeno complesso, in cui spesso il confine tra vittima e carnefice diventa sottile, perché chi bullizza può essere stato, a sua volta, bullizzato. Alla base possono esserci difficoltà relazionali e disregolazione emotiva, come ci spiega la psicologa e psicoterapeuta Rosetta Cappelluccio, presidente della Fondazione I Figli degli altri.
Bullismo e cyberbullismo: quali sono le differenze?
La differenza principale sta nello strumento che viene usato, nel caso delle chat e dei social, l’azione può risultare più dirompente e insidiosa, perché si arriva a dire e fare cose che molto probabilmente non si direbbero e farebbero dal vivo. È quello che solitamente fanno i cosiddetti leoni da tastiera, che possono trasformarsi completamente quando sono nascosti e si sentono “protetti” dietro lo schermo di uno smartphone. Magari hanno assimilato i comportamenti violenti di un videogioco piuttosto che di vere e proprie violenze assistite.
Quali sono le tendenze estreme legate al cyberbullismo?
Si registra un aumento del sextortion, ovvero letteralmente l’estorsione sessuale: la maggior parte dei 137 casi segnalati a livello nazionale è nella fascia 14-17 anni, ma anche il dato che riguarda i minori tra i 10-13 anni desta preoccupazione. Per non parlare delle social challenge, sfide di coraggio altamente pericolose che si diffondono via web per acquisire popolarità, come l’ingestione di detersivo, il binge drinking, ovvero bere molto alcol in poco tempo, il knockout, ossia colpire con un pugno uno sconosciuto senza motivo e, non ultima, la folle sfida di cospargere il corpo con liquidi infiammabili in prossimità di un rubinetto d’acqua.
C’è un identikit del bullo?
No, non c’è, ma possiamo osservare delle tendenze recenti. In passato molto più diffuso tra i maschi, ora il fenomeno vede una accentuazione del femminile e, allo stesso tempo, un abbassamento dell’età in cui si commettono atti di bullismo. Così come c’è una commistione sempre più forte tra componente fisica e psicologica.
Ma da dove nascono questi comportamenti?
Dietro la violenza può esserci un senso di solitudine, l’incapacità di reggere le frustrazioni, la difficoltà di gestire l’ansia, la mancanza di rispetto dell’altro, l’incomunicabilità.
Quali sono i segnali cui si dovrebbe prestare attenzione per rendersi conto che un ragazzo sta subendo o agendo bullismo?
Nei casi estremi nelle vittime, possiamo notare degli atti di autolesionismo, ma anche isolamento, disturbo del sonno, trascuratezza; dall’altra parte, ovvero in chi bullizza, campanello d’allarme possono essere comportamenti di impulsività e irritabilità. Inoltre, può succedere che chi viene bullizzato diventi a sua volta bullo per “ipercompensazione”. È certamente necessaria attenzione e la collaborazione di famiglia, scuola e agenzie educative.
Come si può intervenire?
Anzitutto attraverso l’ascolto dei bisogni emotivi che si celano dietro questi comportamenti, a partire dalla necessità di essere protetti, compresi, accolti, aiutati a gestire rabbia e frustrazione. Insomma, i giovani che commettono atti di bullismo non vanno solo colpevolizzati ma anche aiutati a riflettere sulle ragioni per cui è successo, per recuperarli e rompere la catena della violenza.
Come si può “limitare” l’accesso alla rete ai nativi digitali, senza farli sentire esclusi?
Promuovendo una eduzione al diritto alla privacy, offrendo una rete di supporto e
proteggendo i più vulnerabili. I genitori devono essere educati a questo, messi a conoscenza dei rischi reali che ci sono e che spesso loro stessi ignorano, e al modo giusto per trasferire ai figli queste buone prassi capaci di definire dei “confini di sicurezza”.
Come Fondazione I Figli degli altri, che progetti state realizzando?
Negli ultimi mesi, abbiamo portato questi concetti in giro per le scuole campane, dove abbiamo realizzato un’analisi della domanda. A partire da questo osservatorio, creeremo gruppi di supporto e prevenzione per aumentare la consapevolezza e la capacità di riconoscere la vulnerabilità di questi ragazzi. È necessario diffondere una cultura della reciprocità e orientare i nostri giovani a costruire relazioni sane.
di Maria Nocerino